LE RICOSTRUZIONI E LA SOCIETÀ OPULENTA
Negli anni
immediatamente seguenti la fine della guerra (1945-1947) in tutta l'Europa
attraversata dal conflitto ebbe luogo il difficile ritorno ad un'economia di
pace, in un confronto molto ricco di progetti per il nuovo assetto da dare alle
società dell'Occidente, ma anche nell'incertezza delle strade da prendere
per non ripiombare nella depressione che aveva caratterizzato gli anni Trenta.
In alcuni Paesi, come Gran Bretagna e Francia, vennero impostate politiche
economiche originali rispetto all'anteguerra. Ma la ricostruzione vera e propria
ebbe inizio dopo la spaccatura tra i due blocchi e l'avvio del Piano Marshall,
quando il panorama politico dei principali Paesi europei occidentali venne
uniformato (con l'estromissione dai Governi dei partiti Comunisti) e le iniziali
direttive seguite dalle autorità alleate in Europa rivedute. Gli aiuti e
i crediti statunitensi vennero utilizzati in maniere diverse, e si innestarono
su politiche economiche e sociali non coincidenti; se lo sfondo politico della
ricostruzione era omogeneo, non lo erano le condizioni dei singoli
Paesi.
In Gran Bretagna sin dal 1945 governavano i laburisti, i quali
abbinarono a una politica estera di alleanza con gli Usa l'avvio di un Welfare
State, o stato del benessere: un programma di intervento statale comprendente la
nazionalizzazione di alcuni settori strategici, come la produzione di energia, e
la creazione di un sistema capillare di assistenza sanitaria e pensionistica
pubblica. Questo comportò un rilancio piuttosto lento dei consumi privati
e l'adozione di una politica di austerità che perdurò sino
all'inizio degli anni Cinquanta. La Gran Bretagna affrontava tuttavia più
un rimodellamento delle sue strutture sociali che non una ricostruzione vera e
propria: poiché le distruzioni dell'apparato industriale erano state
tutto sommato modeste, l'industria britannica si rinnovò e
razionalizzò assai meno di quanto non avvenne dove gli effetti della
guerra costrinsero i governanti a interventi più radicali. D'altra parte,
il Governo laburista non si proponeva affatto di modificare il sistema sociale
britannico; i gangli dell'industria e della finanza private restarono intatti,
contribuendo a perpetuare nel Paese una stratificazione sociale più
rigida che sul continente. Né le nazionalizzazioni erano provvedimenti
necessariamente sgraditi ai gruppi industriali: le miniere di carbone
nazionalizzate vennero rilevate a prezzi vantaggiosi per i proprietari, tenuto
conto della scarsa qualità di molti impianti, e della necessità di
grandi investimenti per modernizzarli.
Anche in Francia fu attuata
nell'immediato dopoguerra un'ondata di nazionalizzazioni, decretate dal Governo
presieduto dal generale de Gaulle: ma esse ebbero luogo nell'ambito di
un'economia dove la presenza pubblica era scarsa (solo nel 1945, ad esempio, fu
nazionalizzata la Banca di Francia); inoltre, queste misure vennero viste con
favore anche da tecnocrati e pianificatori che giudicavano l'intervento pubblico
più efficace per la gestione del rilancio economico del Paese, senza
modificarne per altro la qualità. La Francia ebbe, dopo la Gran Bretagna,
la quota più alta degli stanziamenti del piano Marshall, e la quota
più alta in assoluto degli aiuti gratuiti statunitensi. Il Paese aveva
subito distruzioni consistenti: ma c'era in più la volontà
politica di ancorare all'alleanza occidentale un Paese dove il partito Comunista
era uscito dalle elezioni come la formazione politica più forte.
Tuttavia, il rilancio francese risultò ostacolato dai costi della guerra
coloniale in Indocina, nonostante anche in questo caso il Paese ricevesse
consistenti aiuti dagli Usa. La Francia conobbe insomma una crescita economica
costante ma non spettacolare; e cambiò fisionomia assai meno di Paesi
più colpiti dalle distruzioni, come la Germania occidentale, o più
arretrati, come l'Italia.
Il profilarsi della «guerra fredda»
fece rapidamente tramontare i progetti di deindustrializzare la Germania
coltivati durante il conflitto da alcuni consiglieri di Roosevelt. La divisione
in zone di occupazione lasciò nel settore controllato dagli occidentali
il cuore della Germania industriale d'anteguerra, la Ruhr, e le aree più
densamente urbanizzate del Paese. Quando fu costituita la Repubblica Federale di
Germania (1949) e rovesciata la tendenza a smantellare gli impianti industriali
tedeschi, le basi per il rilancio della Germania esistevano tutte: impianti con
tradizioni d'avanguardia, tecnici e manodopera qualificati, integrazione di
industria e agricoltura, e immediatamente anche una massa di forza lavoro
costituita dai Tedeschi cacciati dagli Stati confinanti (Cecoslovacchia,
Polonia, Ungheria) e fuggiti dalla zona di occupazione sovietica. Questa massa
di milioni di persone (circa un quinto della popolazione tedesca occidentale),
rinforzata sino all'inizio degli anni Sessanta, quando venne costruito il muro
di Berlino, da un flusso di nuovi profughi dalla Germania orientale,
assicurò un serbatoio di manodopera spesso qualificata e consolidò
l'orientamento anticomunista del Paese.
La ripresa economica della Germania
privilegiò anzitutto la ricostruzione delle strutture produttive, e solo
in un secondo tempo i consumi; essa fu comunque rapida, al punto da essere
definita «miracolo tedesco», con uno slogan propagandistico passato a
luogo comune, insieme con l'altrettanto fortunata espressione «miracolo
italiano», adoperata a proposito della crescita economica dell'Italia
postbellica.
Questi luoghi comuni hanno banalizzato una realtà: la
tumultuosa crescita complessiva delle economie occidentali proseguita per quasi
un trentennio, dalla fine della guerra alla prima metà degli anni
Settanta. Uno studioso dell'economia francese ha definito il periodo 1945-1974
«delle trenta gloriose» annate (con un gioco di parole che richiama le
«tre gloriose» giornate insurrezionali parigine del luglio 1830).
Tuttavia, anche l'Urss, i Paesi del blocco sovietico e la Cina ebbero una
crescita, spesso, tenuto conto del punto di partenza, assolutamente eccezionale.
(I risultati economici peggiori tra i Paesi dell'Est furono conseguiti forse
dalla Cecoslovacchia, che era in partenza il Paese più
industrializzato).
La forza dei Paesi capitalisti era di disporre
dell'economia americana come volano e di un sistema di scambi commerciali
ancorato alla parità tra dollaro e oro sancita dagli accordi economici di
Bretton Woods (1944) e cessata solo nel 1971. La ripresa europea contribuiva al
proseguimento del lungo boom economico, e la buona salute dell'economia
americana (nell'ambito della quale le spese militari dirette e indirette avevano
un'importanza notevole) sosteneva la crescita dell'Europa occidentale. Nel
sistema venne presto integrato anche il Giappone, dove sotto il diretto
controllo delle autorità militari statunitensi l'apparato industriale
venne ricostituito nell'interesse dei grandi gruppi. Come nell'immediato
dopoguerra gli Stati Uniti sottrassero aree di penetrazione economica alle
potenze colonialiste europee, e soprattutto alla Gran Bretagna (tanto che, dal
punto di vista economico, durante e immediatamente dopo la guerra fu contro di
essa che gli Usa condussero le ostilità), così alla lunga i
miracoli europei, e il generale rafforzamento dell'Europa occidentale (e del
Giappone), hanno ridimensionato il peso degli Usa nell'economia mondiale:
ciò che si è verificato a partire dagli anni Settanta.
La
ripresa accelerata dell'Europa poté contare, tra l'altro, su
disponibilità di manodopera a buon mercato, che assicurava un costo del
lavoro relativamente basso: ovunque si assistette allo spostamento di
popolazioni rurali emigrate dalle campagne a cercare lavoro nell'industria. In
Germania, Francia e Gran Bretagna vi furono immigrati da Paesi europei
più poveri (Italiani e poi Jugoslavi in Germania, Spagnoli e Portoghesi
in Francia) e sempre più immigrati da Paesi extraeuropei, spesso
provenienti da ex colonie (Algerini, Tunisini e Marocchini in Francia, Indiani,
Pakistani e abitanti delle Indie occidentali in Gran Bretagna), ma non solo
(Turchi in Germania). Inoltre, le materie prime dei Paesi del Terzo mondo sono
state a lungo a bassissimo costo.
L'America fece da battistrada, esibendo
già negli anni Cinquanta livelli di benessere diffuso mai conosciuti in
precedenza e segnalati da tutti gli indicatori dei consumi: dalla
quantità e qualità dell'alimentazione, al tipo e alla
localizzazione dell'abitazione (gli anni Cinquanta videro la crescita dei
cosiddetti "suburb'', le periferie residenziali abitate da impiegati e strati di
operai qualificati, scenario di tanti film hollywoodiani e simbolo tra i
più appariscenti dell'"american way of life''), alla dotazione di
elettrodomestici, alla diffusione dell'automobile, al mutamento dei modi di
vita, con la generalizzazione delle vacanze e dell'accesso a livelli di
istruzione superiore per i figli. Questo insieme di fenomeni è stato
compendiato nell'espressione «società opulenta» (affluent
society). Coniato per gli Stati Uniti degli anni Cinquanta dall'economista John
Kenneth Galbraith (fu il titolo di un suo libro pubblicato nel 1958), il termine
poté via via essere applicato a sempre più vaste aree dell'Europa
occidentale: anzi, l'etichetta ha spesso preceduto la realtà dei fatti.
Come notarono subito alcuni sociologi inglesi, le considerazioni svolte da
Galbraith sulla economia e la società statunitensi non potevano affatto
essere trasferite all'analisi dell'Inghilterra degli stessi anni:
l'«operaio opulento» (affluent worker) di talune inchieste era
più uno slogan elettorale del partito conservatore, che non una figura
sociale diffusa. Inoltre, la diagnosi di opulenza andava di pari con la
rivelazione di altri sintomi di cambiamento sociale, egualmente riscontrati
(così pareva) negli Stati Uniti: il tramonto della divisione in classi, e
la fine delle ideologie, cioè delle grandi sintesi politiche
caratteristiche del mondo di anteguerra. Queste osservazioni erano in
realtà largamente mistificatorie. Di fatto, nell'arco di mezzo secolo
l'intero Occidente (e alcune aree degli ex Paesi del «socialismo
reale») divenne effettivamente società opulenta rispetto al resto
del pianeta. Però, l'uso generalizzato del termine, se permette di
cogliere una caratteristica di fondo del mondo contemporaneo, fa buon mercato
degli squilibri e delle sofferenze che non solo hanno accompagnato la crescita
economica dell'Occidente, ma tuttora permangono anche nei Paesi più
ricchi. Nella sua genericità, la definizione di «società
opulenta» dissimula i dislivelli, spesso enormi, di benessere conseguiti
dalle popolazioni dell'Occidente, e il fatto che la diffusione effettiva dei
consumi e il miglioramento innegabile delle condizioni di vita sono stati il
risultato del sacrificio delle popolazioni e si sono largamente alimentati delle
risorse dei Paesi già in partenza più poveri. Con il passare degli
anni, e soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta, un inatteso e
crescente interesse verso una regolamentazione e una limitazione della spinta
globalizzante a livello mondiale – vera molla per la continua apertura del
divario tra società opulente e poverissime – è stata
avvertita a livello sociale per tradursi, successivamente, in momenti di
protesta, come quelli di Seattle (novembre 1999), di Davos (gennaio 2001), di
Göteborg (giugno 2001) o di Genova (luglio 2001), e in veri e propri
movimenti propositivi.
IL PIANO MARSHALL
Già nel corso dell'ultima guerra gli
Stati Uniti avevano avviato una serie di accordi di prestito ai Paesi
dell'Europa sotto forma di aiuti per sostenere le consistenti spese di guerra
(spese che nell'anno di massimo impegno, il 1943-44, nel Regno Unito erano
giunte al 52% del reddito nazionale); questi aiuti erano autorizzati dalla legge
Affitti e prestiti.
L'indebitamento dei vari Paesi europei verso gli Stati
Uniti proseguì anche dopo la fine del conflitto con l'applicazione del
Piano Marshall per gli aiuti all'Europa.
Il piano prendeva il nome
dall'allora segretario di Stato americano George Marshall, che lo propose ad
Harvard il 5 giugno 1947; entrò in vigore nella seconda metà del
1948, suddiviso in quattro anni, fino al 1952.
Il programma di spesa
americano, che è noto anche sotto il nome di Erp (European Recovery
Program), rappresentò l'organizzazione sistematica delle varie forme di
aiuto statunitense alla ricostruzione dei Paesi europei disposti ad accettare
una integrazione nel sistema politico ed economico internazionale con a capo gli
Stati Uniti; come condizione per la concessione degli aiuti gli Usa chiesero una
stretta cooperazione tra i Paesi europei.
Il piano venne accettato dai
Paesi dell'Europa occidentale ed aspramente criticato da quelli dell'Europa
dell'Est e dai vari partiti Comunisti europei.
I Paesi beneficiari
contrassero con gli Stati Uniti una serie di impegni bilaterali che prevedevano
diritti ed obblighi individuali, mentre tra di loro stipularono gli accordi
plurilaterali essenziali alla concessione degli aiuti (previsti tanto sotto
forma di valuta e di crediti che di materiali e attrezzature).
Per la
gestione dell'Erp venne creata una apposita organizzazione, l'Oece (Organization
of Economic Cooperation for Europe), mentre per l'erogazione degli aiuti gli
Stati Uniti istituirono un proprio organismo, l'Eca (European Cooperation
Administration).
Lo scopo ufficialmente dichiarato del piano era quello di
fornire un contributo essenziale alla ricostruzione in Europa, aiutandone lo
sviluppo e la crescita della produzione e creando alti livelli di occupazione,
nel quadro di una stabilità monetaria, finanziaria ed economica
internazionale.
Era inoltre evidente il significato anticomunista del
piano: infatti la promozione di una rapida ripresa economica in Europa,
migliorando le condizioni di vita delle popolazioni, avrebbe tolto ai Partiti
comunisti occidentali (soprattutto quello italiano e quello francese
particolarmente forti) la possibilità di far leva sul malcontento della
popolazione.
Accanto a queste motivazioni più o meno apertamente
dichiarate, ve ne furono tuttavia altre, altrettanto concrete, che traevano
origine dalla necessità per gli Stati Uniti di stimolare la propria
economia. Infatti, negli Usa la capacità di produzione nel corso della
guerra era cresciuta in misura considerevolmente superiore al consumo interno e
si stava correndo il rischio di una crisi economica se non si fosse riusciti a
trovare adeguati mercati di sbocco per i prodotti americani. Il piano Marshall
rappresentò così anche l'occasione per riconvertire la produzione
statunitense da produzione di guerra a produzione di pace e per trasferire sui
mercati europei le eccedenze americane agricole, industriali ed
energetiche.
Poiché la maggior parte dei Paesi europei non era in
grado di pagare in danaro le necessarie importazioni dagli Stati Uniti, o di
compensarle con adeguate esportazioni nazionali verso gli Usa (ove, peraltro,
vigeva una ferrea politica protezionistica), il piano Marshall veniva a
concedere quei prestiti e quegli aiuti che avrebbero, tra l'altro, permesso
all'economia statunitense di prosperare, entrando in una fase tra le più
fiorenti della sua storia. Tra il 1948 e il 1952 vennero così indirizzati
verso l'Europa aiuti per un totale di 14 miliardi di dollari (di cui 1303
milioni a favore dell'Italia) sotto forma di donazioni nella misura dell'85 per
cento e sotto forma di prestiti per il rimanente 15 per cento, al tasso di
interesse del 2,5 per cento annuo rimborsabili a lunga scadenza (30-40
anni).
Grazie anche agli aiuti ottenuti a titolo del piano Marshall,
già entro cinque anni dalla fine del conflitto i danni materiali della
guerra in Europa occidentale si potevano dire completamente riparati tanto per
quanto riguarda i trasporti, che per la produzione industriale e quella
agricola; anche in campo monetario si manifestava una decisa tendenza alla
stabilità, mentre la cooperazione internazionale dava un grande impulso
ai rapporti commerciali. Lo stesso problema della disoccupazione, considerato di
particolare gravità al momento della stipula degli accordi, trovò
una soddisfacente soluzione in tutta l'Europa occidentale grazie allo sviluppo
industriale, tanto che in diversi Paesi fu necessario fare ricorso a quote
consistenti di immigrati. In Italia circa il 20 per cento degli aiuti americani
(255 milioni di dollari) vennero impiegati per l'acquisto di macchinari e
attrezzature Usa, soprattutto nei settori dell'industria elettrica (66 milioni
di dollari), dell'industria siderurgica (64 milioni di dollari) e di quella
meccanica (60 milioni di dollari), col risultato che nel 1952 l'attività
produttiva italiana aveva raggiunto un livello superiore del 50 per cento a
quello su cui si attestava prima della guerra.
Il rilevante effetto di
stimolo all'economia americana conseguente agli aiuti concessi ai Paesi europei
si può misurare con un calo della disoccupazione Usa che, tra il 1949 e
il 1953, passò dal 5,9 al 2,9 per cento, mentre la produttività
crebbe dall'1,9 al 4,3 per cento e il prodotto interno lordo salì dal 2,7
del periodo 1945-49 al 6,1 per cento dei primi tre anni Cinquanta.
Il piano
Marshall riuscì pertanto ad offrire all'Europa la possibilità di
aumentare la produzione di avviare una consistente fase di crescita
dell'economia; nel contempo permise agli Stati Uniti di evitare una temibile
crisi utilizzando la domanda dei Paesi europei con valvola di sfogo.
Ai
giorni nostri, sulla base dell'esperienza europea del dopoguerra, viene proposta
l'applicazione di un analogo piano di aiuti per risolvere la questione debitoria
dei Paesi del Terzo mondo. La nuova versione del piano Marshall per i Paesi in
via di sviluppo potrebbe mettere a frutto l'enorme domanda potenziale del Terzo
mondo con vantaggio tanto per i Paesi sottosviluppati che per quelli
avanzati.
IL MIRACOLO TEDESCO
Tra la metà del XIX secolo e i primi
decenni del XX la Germania aveva ormai conquistato una posizione economica di
grande rilevanza nel quadro europeo e mondiale. I settori da cui traeva maggiore
impulso la crescita tedesca erano quello dell'industria pesante e della
meccanica di precisione (già a quei tempi particolarmente avanzata). Le
due guerre mondiali, però, ebbero l'effetto di mettere in gravi
difficoltà per ben due volte l'economia tedesca. Particolarmente gravi
furono le conseguenze dell'ultimo conflitto a causa dei bombardamenti a tappeto
che avevano colpito le città, le vie di comunicazione, le miniere e le
fabbriche. Inoltre le quattro potenze che occupavano la Germania in virtù
degli accordi stabiliti alla fine dell'ultimo conflitto mondiale (Usa, Gran
Bretagna, Francia e Unione Sovietica) stavano procedendo a sistematici
smantellamenti degli impianti industriali tedeschi scampati ai bombardamenti e
alla esportazione verso i propri territori di macchinari, di scienziati e di
tecnici.
Questa politica da parte degli alleati aveva lo scopo di
deindustrializzare la Germania e di convertire all'agricoltura la sua economia,
al fine di impedire che risorgesse il temuto «pericolo tedesco». La
Germania venne così privata, almeno in un primo tempo, di una grande
parte delle sue industrie produttrici di macchinari, nonché dell'intero
settore della ricerca scientifica e industriale.
Ben presto tuttavia gli
alleati si resero conto che solo una Germania occidentale economicamente forte
avrebbe potuto rappresentare un ostacolo alla espansione in Europa dell'Unione
Sovietica e del comunismo. Pertanto, nell'aprile del 1949 le tre zone occupate
da Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti vennero unificate e costituirono la
Repubblica Federale Tedesca con capitale Bonn. A questa iniziativa unilaterale
dei suoi vecchi alleati, l'Unione Sovietica rispose autorizzando la nascita,
nell'ottobre dello stesso anno nei territori da lei occupati, della Repubblica
Democratica Tedesca, che rimase sotto la sua sfera di influenza.
Nel 1949
la Germania Federale venne quindi inserita nel programma di aiuti americani per
la ricostruzione dei Paesi europei (piano Marshall), ma fino al 1951
continuò a subire lo smantellamento del suo apparato industriale. Nel
periodo della occupazione alleata vennero peraltro effettuate scelte che
sarebbero state determinanti per lo sviluppo successivo dell'economia tedesca.
In materia di politica economica si optò per un sistema di libero mercato
(basato sulla iniziativa privata, sulla libera impresa e sull'efficienza
competitiva) che avrebbe consentito un più efficace impiego delle
risorse. Rilevante tuttavia restò il peso delle imprese di
proprietà statale, che venivano però gestite in base a criteri di
efficienza (come le imprese private).
Per stabilizzare l'economia fu
inoltre necessaria l'adozione, alla metà del 1948, di una riforma
monetaria (resa indispensabile anche dalla elevatissima inflazione ereditata
dalla guerra) che ancorò il marco al dollaro riuscendo a far sì
che, nel tempo, esso diventasse una delle più forti monete del
mondo.
In tal modo era completo il quadro delle premesse di quello che
viene definito come miracolo economico tedesco; da più parti le cause
della rinascita economica della Germania, prostrata alla fine del conflitto,
vengono riassunte in una adeguata disponibilità di capitali, di
forza-lavoro e di mercati di sbocco.
Per procedere alla ricostruzione delle
industrie e delle infrastrutture alla Germania Federale occorrevano consistenti
fondi. Gli aiuti ottenuti dagli alleati occidentali fino all'ottobre 1954
ammontavano a 4,4 miliardi di dollari, ma risultarono decisamente inferiori agli
impegni che gli alleati imponevano a titolo di costi di occupazione e di
riparazioni di guerra. Al di là della entità degli aiuti,
tuttavia, il piano Marshall ebbe sull'economia tedesca occidentale l'effetto
positivo di fornire valuta straniera per l'acquisto di generi di prima
necessità e di materie prime sui mercati internazionali, riavviando le
relazioni commerciali con l'estero. In effetti, furono i sacrifici della
popolazione, ben decisa a ricostruire il Paese, che permisero di realizzare
investimenti che, tra il 1949 e il 1954, furono pari al 25 per cento circa del
prodotto nazionale lordo (valori unici in Europa).
In base allo slogan
«prima la fabbrica, poi la casa» venne data priorità alla
ricostruzione industriale per la quale, nonostante i danneggiamenti e gli
smantellamenti, investimenti opportuni e spesso neppure troppo elevati
consentirono la rapida ripresa delle operazioni produttive.
Un grave
problema che il nuovo Stato dovette affrontare riguardava i 12 milioni di
rifugiati provenienti dall'Est. L'inserimento di questa moltitudine avvenne in
due tempi: inizialmente i profughi vennero impiegati nella ricostruzione
agricola; successivamente gran parte di essi si trasferì nelle
città per prendere parte alla ricostruzione industriale. La
disponibilità di grandi masse di lavoratori, spesso qualificati, si
trasformò così per la Germania da grave problema in importante
potenziale per lo sviluppo futuro. Il miracolo economico tedesco attirò
anche milioni di lavoratori stranieri (provenienti in prevalenza dall'area
mediterranea) che aggiungendosi ai profughi dell'Est, andarono ad accrescere
quell'esercito di mano d'opera che, grazie alla politica di contenimento dei
salari seguita dai sindacati, tanta parte ebbe nello sviluppo della Germania
Federale.
La ripresa dei rapporti commerciali con l'estero fu un elemento
ulteriore di crescita. Nei primi anni del dopoguerra vennero avviati traffici
con tutte le democrazie liberali, mentre in tempi più recenti sono stati
allacciati rapporti commerciali anche con i Paesi dell'Est alla ricerca di nuovi
mercati di sbocco.
Pertanto, inizialmente, il Paese trasse vantaggio dalla
divisione del suo territorio tra gli alleati: gli fu assegnata una regione tra
le più popolose (il che avrebbe assicurato la disponibilità di
mano d'opera necessaria all'avvio della ricostruzione), dotata delle terre
più fertili, delle zone minerarie più ricche e dei maggiori
complessi industriali, sia pure danneggiati dalla guerra. Questi presupposti
hanno certamente permesso al Paese di partire col piede giusto. Negli anni
seguenti la scelta a favore di un pur limitato intervento statale nell'economia,
l'alta qualificazione della forza lavoro (che percepisce elevati salari, fa
raramente ricorso allo sciopero e partecipa alla gestione aziendale) svolsero un
ruolo importante. Determinante fu anche la rinascita dei grandi gruppi di
integrazione verticale, in cui si effettua l'intero ciclo produttivo, dalla
materia prima al prodotto finito, senza fare ricorso ad altre imprese (esempio
tipico è quello della Krupp, la cui gamma di produzione va dall'acciaio
alla più minuta utensileria domestica).
Furono questi gli strumenti
che resero possibile in pochi anni lo sviluppo industriale e la crescita
economica di un Paese fisicamente e moralmente distrutto, facendolo tornare una
potenza industriale tra le maggiori al mondo, caratterizzata da un reddito
procapite tra i più elevati, con tassi di sviluppo annui che trovavarono
riscontro, prima della riunificazione, solo nel caso del Giappone.
In
questo senso la definizione di "miracolo economico tedesco'' trovava piena
ragione d'esistere.
LA SOCIETÀ DEI CONSUMI
Prima della Rivoluzione industriale (ma in
molti Paesi fino ai primi decenni di questo secolo) i modelli di consumo della
popolazione erano improntati ad una grande semplicità: il tenore di vita
era talmente basso che si poteva esprimere soltanto una domanda di beni di prima
necessità. Il livello dei consumi permetteva unicamente di soddisfare le
esigenze primarie dell'alimentazione, mentre il vestiario e l'abitazione spesso
si collocavano su un piano secondario.
Con l'avvento della società
industriale e con la produzione di massa vengono immessi sul mercato beni in
quantità crescenti, i quali sono resi accessibili a strati sempre
più ampi della popolazione, sconvolgendo il quadro di riferimento di
tradizioni secolari. In questa nuova forma di società viene privilegiata
la produzione di beni di consumo rispetto a quella degli strumenti di
produzione, in quanto questi ultimi richiedono investimenti iniziali molto
consistenti e tempi molto lunghi di produzione e di ritorno del capitale,
attraverso la vendita del prodotto (velocità di rotazione del
capitale).
Oltre che dalla necessità di minori investimenti iniziali
e dalla maggiore velocità di rotazione del capitale, la produzione dei
beni di consumo viene facilitata dalla possibilità di mettere in atto, da
parte delle imprese produttrici, una azione di persuasione che, attraverso la
pubblicità, diffonde modelli di consumo di massa, riuscendo a
condizionare le scelte dei consumatori. Puntando su valori effimeri quali il
prestigio e il successo e mediante l'impiego dei mezzi di comunicazione, nei
Paesi industrializzati si è potuto ottenere un continuo aumento della
domanda di beni di consumo volta al soddisfacimento indiscriminato di bisogni
non essenziali, spesso a scapito di quelli sociali.
Poiché la gamma
dei beni giudicati primari muta a seconda del periodo storico, del grado di
sviluppo economico e del contesto sociale in cui si opera (oggi nei Paesi
avanzati il frigorifero costituisce, a differenza di quanto accadeva solo alcuni
decenni fa, un bene irrinunciabile), come beni di prima necessità non
possono più essere considerati solamente quelli che permettono la pura
sopravvivenza dell'uomo, bensì tutta la gamma di beni che consente un
tenore di vita quanto più possibile vicino a quello medio della
popolazione.
Pertanto, al fine di realizzare profitti crescenti, le imprese
operano per promuovere bisogni che stimolino la gente all'acquisto di nuovi beni
di consumo. Attraverso lo sviluppo tecnologico si rendono superati (obsoleti)
molti prodotti e si inducono bisogni sempre nuovi per il cui soddisfacimento i
vecchi beni vengono presentati come inadeguati.
Per questo da più
parti si sostiene che la ricerca scientifica, piuttosto che contribuire alla
soluzione di problemi sociali, si dimostra asservita alla società dei
consumi facili per la sua capacità di promuovere lo smercio di nuovi
beni, la cui produzione è giustificata unicamente dalla legge del
profitto. Si manifestano così fenomeni di distorsione dei consumi a causa
dell'attenzione che viene posta sui bisogni individuali, a scapito delle
esigenze sociali della collettività.
Un esempio particolarmente
significativo riguarda gli anni dello sviluppo economico italiano nel dopoguerra
(1951-1963).
Il «miracolo economico» del nostro Paese venne reso
possibile dall'espandersi dell'industrializzazione e dalla capacità di
esportazione delle imprese produttrici di beni di consumo. Con il progresso
economico le occasioni di lavoro nel nostro Paese aumentarono, soprattutto nei
settori industriali più dinamici, che producevano per il mercato estero e
distribuivano salari più elevati. I maggiori redditi a disposizione dei
lavoratori di questi settori indussero un aumento della domanda di beni di
consumo più elevato di quanto il reddito per abitante avrebbe consentito.
La politica delle imprese volta a condizionare le scelte dei consumatori, unita
alla tendenza ad imitare i consumi delle classi dotate di reddito più
elevato, fece sì che, in quegli anni, in ogni famiglia italiana
comparissero elettrodomestici, automobili, televisori.
La crescita dei
consumi privati, tuttavia, non fu accompagnata da uno sviluppo equilibrato dei
consumi di carattere collettivo e sociale. Beni assolutamente prioritari quali
l'istruzione, le abitazioni, l'assistenza sanitaria, i trasporti pubblici
risultarono del tutto insufficienti e inadeguati mentre la dieta della
popolazione si manteneva troppo povera. A partire da quegli anni si evidenzia
pertanto una distorsione nei consumi degli Italiani, i quali privilegiano la
domanda di generi non necessari a scapito di quella di beni essenziali.
Non
va poi trascurato il fatto che spesso allo Stato venne demandato l'incarico di
provvedere alla creazione delle infrastrutture che richiedevano largo impiego di
capitale e che risultavano essenziali alla produzione delle imprese. Esempio
tipico fu quello della costruzione a carico dello Stato della rete autostradale,
la quale ha indubbiamente favorito lo sviluppo dell'industria automobilistica a
scapito di una efficiente diffusione del trasporto ferroviario e del trasporto
pubblico in generale.
Il modello di sviluppo applicato in Italia ha
pertanto provocato squilibri nella tipologia dei consumi, anche se ha permesso
alla popolazione di raggiungere un tenore di vita abbastanza
elevato.
Rispetto all'inizio del secolo, la struttura dei consumi è
mutata in misura radicale. Tra il 1901 e gli ultimi anni Ottanta, il consumo
annuo di carne era passato da 5 a 26 chilogrammi per abitante, mentre i consumi
di frutta fresca erano saliti da 26 a 83 chilogrammi, quelli di latte da 34 a 84
e quelli di zucchero da 3 a 29 chilogrammi. Tali incrementi, tuttavia, erano
significativi non solo sul piano quantitativo, ma soprattutto su quello
qualitativo della dieta degli Italiani. In pratica, rispetto all'inizio del
secolo si mangiava - e la tendenza continua tuttora - di più, consumando
una gamma molto più vasta e articolata di alimenti. Accanto a quelli
tradizionali, inoltre, presero spazio consumi di nuova generazione quali quelli
relativi alla cultura, all'informazione, allo sport, al tempo libero,
contribuendo ad elevare ulteriormente il tenore di vita del popolo
italiano.
L'INDUSTRIALIZZAZIONE DEL MONDO
Un fortunato manuale di storia economica
europea dell'età contemporanea porta il titolo di La conquista pacifica,
alludendo alla diffusione della civiltà industriale. C'è qualche
motivo di paradosso nella definizione: per esempio, lo sviluppo dell'industria
è stato spesso connesso, direttamente o indirettamente, a una guerra in
corso, oppure alle spese per gli armamenti, cioè per la preparazione di
un'altra guerra; inoltre, pacifica l'industrializzazione può essere
considerata rispetto alle conquiste brutali del colonialismo, ma indolore
certamente non si è rivelata, sia perché l'introduzione delle
fabbriche ha significato ovunque sradicamento di popolazioni e assoggettamento
di masse di lavoratori a fatiche non più lievi di quelle imposte dalle
società agrarie tradizionali, sia perché l'industrializzazione di
alcuni poli (Paesi interi o aree all'interno di un Paese) è avvenuta a
spese dei Paesi extraeuropei e delle aree non toccate inizialmente dalla
Rivoluzione industriale.
La vera e propria industrializzazione del mondo ha
avuto luogo dopo il 1945, e per molti versi è tuttora in corso. Intanto,
tutti i Paesi di prima industrializzazione, e quelli che avevano creato una base
industriale si sono integralmente industrializzati, il che ha comportato la
drastica diminuzione della popolazione contadina, la meccanizzazione
dell'agricoltura, l'ampliamento del settore dei servizi, alla lunga l'avvento,
accanto alle e spesso al posto delle industrie tradizionali, soprattutto quelle
pesanti, come la siderurgia e la cantieristica, di nuove attività legate
all'elettronica e all'informatica: un processo definito di «seconda
industrializzazione», che è in effetti la riconversione di parte
dell'apparato industriale dei Paesi di più antica e diffusa
industrializzazione. Questa riconversione procede per settori e per isole, per
aree geografiche e senza eliminare o sostituire mai del tutto i settori
tradizionali, rendendo così sempre più complessa e variegata la
fisionomia delle economie avanzate.
Già per la fase della prima
industrializzazione gli studiosi hanno individuato l'importanza, Paese per
Paese, di fattori sostitutivi del processo di accumulazione caratteristico dei
primi Paesi industriali: le differenze nel processo di sviluppo tra «primi
arrivati» (first comers) nella famiglia dei Paesi industrializzati e
«nuovi venuti» (late joiners), non priva di alcuni vantaggi per i
secondi, in grado di partire dal livello tecnologico già raggiunto dai
primi, sono state da tempo rilevate. L'industrializzazione del mondo ha
significato che produzioni divenute non più economiche (per gli
accresciuti costi del lavoro, per la necessità di importare le materie
prime) o non più accette alle popolazioni (per gli effetti dannosi
sull'ambiente) nei Paesi già industrializzati sono state trasferite in
Paesi non ancora industrializzati; dove per gli stessi motivi (soprattutto il
basso costo del lavoro) sono state dislocate anche le produzioni di componenti
di prodotti avanzati. Le grandi compagnie multinazionali statunitensi, europee e
giapponesi hanno pilotato l'espansione industriale, tenendo presenti soprattutto
gli interessi dei Paesi d'origine: tanto da suscitare interrogativi sul
significato effettivo di un concetto come quello di sovranità nazionale,
una volta che l'economia di un Paese venga largamente a dipendere da decisioni
prese altrove e non necessariamente in vista degli interessi del Paese in
questione. Così, la cantieristica e la siderurgia europee sono state
ridimensionate dalla concorrenza giapponese: ma dagli anni Settanta lo stesso
Giappone, divenuto a sua volta un perno del mondo più industrializzato,
ha sostenuto lo sviluppo di cantieristica, siderurgia e meccanica in altri Paesi
dell'Asia orientale: la Corea del Sud e Taiwan, anzitutto, e più
recentemente Singapore, Indonesia e Thailandia. Settori come l'industria tessile
e calzaturiera di bassa qualità si sono spostati dai centri europei e
nordamericani ad alcuni Paesi asiatici (India, Cina, Taiwan); ma anche le
componenti di strumenti elettronici come i calcolatori e i computer sono
prodotte e spesso assemblate in Estremo oriente o in America latina. D'altra
parte, l'industrializzazione si è imposta, a prescindere dalle spinte
esterne, a quei Paesi, come la maggior parte dell'America latina, dipendenti
sino alla Seconda guerra mondiale dalle esportazioni di prodotti agricoli e
materie prime. Così l'Argentina, danneggiata dal crollo dei prezzi della
carne, e il Brasile, dipendente dai corsi del caffè, dello zucchero e del
cacao, promossero dopo la Seconda guerra mondiale rapide industrializzazioni
dall'alto, con il sostegno dei Governi, e con conseguenze sociali
sconvolgenti.
Le diverse ondate di industrializzazione, e il modo in cui
ogni Paese ne è stato investito, o per impulso interno o per intervento
di investimenti esteri, hanno ridisegnato più volte le gerarchie
economiche mondiali. Gli Stati Uniti si sono affermati come la principale
potenza economica mondiale; ma l'Europa occidentale, in particolare la Germania
occidentale, e il Giappone hanno acquisito una supremazia nelle rispettive aree
geografiche fra gli anni Sessanta e Settanta. Finita l'epoca della
convertibilità del dollaro in oro, gli stessi Usa hanno ingaggiato una
sottile lotta per difendere le proprie posizioni corresponsabilizzando i
partners nel sostegno del ritmo di crescita dell'economia mondiale. Dai tardi
anni Settanta è entrata nell'uso l'espressione di «tre
locomotive» per indicare i tre Paesi che dovrebbero trainare il convoglio
del mondo industrializzato: Stati Uniti, Giappone, Germania occidentale. Ma
all'interno delle diverse aree regionali le posizioni relative dei diversi Paesi
sono andate cambiando. In Europa, la Francia ha avuto uno sviluppo lineare e non
molto appariscente sino alla fine degli anni Cinquanta, e poi una rapida
modernizzazione nei due decenni successivi. La Gran Bretagna ha sofferto
più degli altri Paesi dell'invecchiamento del suo apparato industriale,
in gran parte smantellato negli anni Ottanta dalle politiche liberistiche dal
Governo conservatore. Paesi un tempo relativamente prosperi, come l'Argentina,
persero col tempo posizioni, arrivando, all'inizio del nuovo millennio, a
momenti di profondissima crisi. La Corea del Sud, un tempo Paese agricolo, ha
superato per forza e modernità dell'apparato industriale la Corea del
Nord, culla delle prime industrie del Paese.
L'industrializzazione del
mondo ha complicato alla lunga le classificazioni geoeconomiche: il Terzo mondo
si è disintegrato, comprendendo una pattuglia di Paesi ad
industrializzazione accelerata, altri in via di industrializzazione, ed altri
ancora relegati al ruolo di produttori di materie prime. Tant'è che si
distingue ormai un Quarto mondo, rappresentato dai Paesi più poveri del
pianeta. Da questo punto di vista, anche la contrapposizione, in voga a partire
dagli anni Settanta, tra il Nord e il Sud del pianeta, semplificazione per
indicare Paesi ricchi e Paesi poveri, sembra scarsamente utile, se non come
slogan efficace da utilizzare nel dibattito politico. Aree in sviluppo e aree
depresse coesistono all'interno di ogni Paese e a maggior ragione all'interno di
ogni continente. E tra Paesi ricchi e Paesi poveri esistono
complementarità e relazioni di dipendenza sovente
complesse.
L'ALTRA FACCIA DELLO SVILUPPO
Il rapporto tra sviluppo economico e
sottosviluppo, anzi la correttezza stessa di queste nozioni, sono state oggetto
di discussioni accanite. Quella dello sviluppo è stata una vera e propria
ideologia, assunta prendendo come riferimento la storia economica
dell'Occidente: del resto, il sottotitolo del libro di Walt W. Rostow, Le fasi
dello sviluppo economico (1960: Rostow fu tra i consiglieri dei presidenti
statunitensi Kennedy e Johnson) era, significativamente, un «manifesto non
comunista». Il sottosviluppo di una parte del mondo, è stato
osservato, non è avvenuto nonostante lo sviluppo di un'altra parte, ma a
causa di questo: sviluppandosi, alcuni Paesi ne hanno sottosviluppato altri. I
critici delle teorie dello sviluppo (desarrollistas = «sviluppisti»,
sono stati denominati i teorici del decollo industriale dell'America latina) a
loro volta hanno sottovalutato la possibilità dell'uscita dalle
società tradizionali, omologando tendenzialmente il Terzo mondo in un
destino di invincibile miseria.
è comunque innegabile che
l'inserimento dei Paesi del Terzo mondo in un mercato mondiale dominato dai
grandi Paesi industrializzati ha prodotto guasti di vario genere. Le
attività economiche locali sono state subordinate per un secolo a quelle
dell'Europa: rovinate, come fu il caso dell'attività tessile indiana con
l'avvento del dominio britannico, o ridotte alla esportazione di materie prime.
Il divario stabilito tra una parte del mondo e un'altra durante la prima
Rivoluzione industriale non è stato sostanzialmente mai colmato; se
possibile, si è in qualche caso approfondito. I Paesi agricoli e
produttori di materie prime hanno conosciuto nel corso del Novecento un
miglioramento delle condizioni sanitarie ed alimentari tale da assicurare una
sostenuta crescita demografica. Ma non sono cresciute allo stesso modo le
opportunità di lavoro. Al contrario, dagli anni Cinquanta-Sessanta le
cosiddette «rivoluzioni verdi», cioè la meccanizzazione
dell'agricoltura, e l'introduzione dei fertilizzanti chimici su larga scala,
hanno radicalmente modificato l'assetto delle campagne di tutto il mondo: mentre
però nei Paesi già industrializzati l'esodo dalle campagne ha
sostenuto i boom economici di questo dopoguerra, dirigendosi verso le industrie
nazionali, nel Terzo mondo lo stesso esodo ha semplicemente disgregato nel giro
di una generazione le tradizionali società contadine, e svuotato le
campagne per affollare le periferie dei grandi agglomerati urbani, come
Città del Messico, Lima, Bombay, Il Cairo, dove la gran parte della
popolazione è priva di connotati sociali precisi: non più
contadini, non ancora, e forse mai, operai, i milioni di sottoproletari delle
metropoli del Terzo mondo alimentano un'enorme economia sommersa, una assai
più appariscente economia criminale (in alcune aree dell'America latina e
del Sud-Est asiatico massicciamente orientata, dagli anni Settanta, al traffico
della droga verso i Paesi ricchi), e flussi migratori verso i Paesi industriali
(gli Stati Uniti anzitutto, ma sempre più nettamente anche l'Europa
occidentale), per andare a svolgervi i lavori meno qualificati e più
pesanti. Nell'insieme, se la «società opulenta» dell'Occidente
ha potuto essere incisivamente definita «la società dei due
terzi», per intendere che il benessere da essa consentito è un fatto
di maggioranza, ma esclude pur sempre una cospicua fetta della popolazione, nei
Paesi del Terzo mondo anche più inoltrati verso la crescita industriale
(come il Brasile) il rapporto è, nel migliore dei casi, rovesciato: una
fetta nettamente minoritaria della popolazione esclude dal benessere la grande
maggioranza.
Particolarmente drammatica appare la situazione dei Paesi
già più deboli durante il periodo coloniale, come quelli
dell'Africa subsahariana. Qui la rovina dell'agricoltura tradizionale è
avvenuta anche in assenza di progetti di industrializzazione. E la dipendenza di
molti Paesi soprattutto africani (ma anche dell'America latina) dai prestiti del
Fondo Monetario Internazionale e delle grandi banche occidentali, soprattutto
statunitensi, ha contribuito ad aggravare le loro condizioni, vincolando le
politiche economiche alle decisioni delle autorità del Fondo. Il problema
del debito del Terzo mondo, che riguarda anche Paesi di nuova
industrializzazione, era stato in passato ripetutamente agitato nelle riunioni
del movimento dei Paesi «non allineati», dove qualche voce radicale,
come quella del cubano Fidel Castro, ne aveva sostenuto la pura e semplice
cancellazione.
Con gli anni, e dopo la fine della divisione netta in
blocchi, il problema si fece sentire in modo sempre più massiccio, grazie
soprattutto alla sensibilità di parte della cosidetta elite
intellettuale.
C’era da considerare, comunque, che le situazioni dei
Paesi debitori erano però assai diverse tra loro: alcuni si erano
indebitati negli anni Sessanta-Settanta per finanziare le infrastrutture
necessarie al decollo industriale, mentre altri avevano semplicemente difeso le
strutture economiche esistenti, senza rinnovarsi: in America latina, il Brasile
rappresentò il primo caso, l'Argentina il secondo.
La tendenza
degli esperti e degli agronomi che a partire dagli anni Settanta si
interessarono al problema della povertà del Terzo Mondo, era quella di
raccomandare l'impiego, ad esempio nei Paesi agricoli africani, di tecniche
semplici e realizzabili sul posto, senza l'aiuto di tecnologie costose e
necessariamente da importare, e capaci di assorbire manodopera: in sostanza,
l'adozione di una via simile a quella teorizzata, e in buona misura praticata,
dalla Cina nel primo ventennio di Repubblica popolare. Questo non soltanto
perché era considerato l'unico modo di rendere veramente autosufficienti
i Paesi destinatari degli aiuti, ma anche perché si trattava dell'unica
via per assicurare un passaggio non traumatico dalle società tradizionali
ai nuovi modi di vita. Ad ostacolare l'adozione di queste politiche non fu
soltanto l'interesse dei Paesi industrializzati, talvolta inesistente, ma anche
(se non soprattutto) la volontà dei ceti dominanti locali di rafforzare
il proprio potere interno. Le gerarchie economiche ridisegnate negli anni
Settanta-Ottanta sembrarono perciò destinate a durare e ad approfondire
dislivelli già all'epoca sensibili e tanto finemente analizzati da
economisti e sociologi quanto poco efficacemente affrontati sul terreno
operativo.
Come abbiamo già detto, durante gli anni Ottanta e
Novanta una nuova sensibilità, non politica ma cultural-sociale, si fece
strada. Era rappresentata da intellettuali, esponenti del mondo della cultura o
dell’intrattenimento che desideravano agire a livello personale per
offrire un aiuto concreto (inizialmente di tipo finanziario, quindi sempre
più politico) a Paesi e popolazioni in difficoltà. Si assistette
allora all’organizzazione di concerti (Live Aid, USA for Africa), di
eventi sportivi, di manifestazioni di vario genere; con gli anni le
manifestazioni vennero affiancate da vere e proprie azioni di sensibilizzazione
(memorabili quelle del cantante britannico Sting nei confronti delle popolazioni
dell’Amazzonia o ancora quella dell’irlandese Bono Vox, leader del
gruppo musicale U2, per favorire la cancellazione del debito estero dei Paesi
indigenti).
SVILUPPO E SOTTOSVILUPPO: NOZIONI IN DISCUSSIONE
La condizione di sottosviluppo è
caratterizzata da numerosi elementi di ordine sia economico, sia sociale in
senso lato. Tra i primi, quelli fondamentali sono costituiti dalla mancanza di
capitali sotto forma di strumenti per la produzione e dalla bassa
produttività delle scarse risorse disponibili. In molti casi, la
popolazione dedita all'agricoltura è così numerosa, che il suo
apporto all'aumento del prodotto agricolo (produttività) è nullo,
tanto che trasferendo lavoratori ad altre attività la produzione agricola
complessiva non si riduce. In condizioni di sottosviluppo il prodotto per
abitante (la ricchezza prodotta in media da una persona) è basso e
garantisce solo la sopravvivenza della popolazione, senza che le sue condizioni
di vita possano migliorare in modo sostanziale. In presenza anzi di
calamità naturali, carestie e guerre l'economia non è neppure in
grado di assicurare il mantenimento dell'intera popolazione e possono
manifestarsi casi di morti per fame.
Le società tradizionali si
caratterizzano anche per una situazione demografica stagnante, come conseguenza
di un alto numero di nascite, ma anche di decessi, e per la forza dei gruppi
sociali e dei valori culturali che dominano la scena prima dell'affermarsi del
capitalismo.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale i Paesi in via di
sviluppo si liberano dal giogo del colonialismo, conquistano l'indipendenza
politica e si impegnano in vasti progetti di modernizzazione delle loro
economie. Il risultato è che, contrariamente alle aspettative di molti,
al loro interno prende corpo un processo di sviluppo a ritmi anche elevati e il
peso dell'agricoltura si riduce a beneficio dell'industria. Tra il 1950 e il
1975 nei Paesi del Terzo mondo l'espansione della produzione si aggira sul 5 per
cento all'anno, raggiungendo valori più che doppi rispetto a quelli
registrati dagli attuali Paesi industrializzati nel secolo scorso, quando erano
ancora alle prese con i problemi del sottosviluppo. Inoltre, fra il 1960 e il
1981 il prodotto industriale sale dal 26 al 37 per cento della produzione totale
dei Paesi in via di sviluppo, mentre la quota dell'agricoltura scende dal 34 al
22 per cento. Anche il prodotto per abitante, l'indicatore sintetico che misura
(con molti limiti) il livello di sviluppo, cresce.
Rispetto all'aumento del
prodotto pro capite nel periodo 1960-1982, i Paesi del Terzo mondo potevano
essere distinti in tre gruppi: a) nel primo gruppo trovavamo 15 Paesi con un
tasso di crescita superiore al 3 per cento: Indonesia, Egitto, Thailandia,
Nigeria, Repubblica Dominicana, Ecuador, Turchia, Tunisia, Colombia, Siria,
Malaysia, Corea del Sud, Brasile, Messico, Jugoslavia; b) nel secondo gruppo
erano inseriti 19 Paesi con tassi compresi fra i 3 e l'1 per cento. Etiopia,
Mali, Myanmar (Birmania), Malawi, Alto Volta, Ruanda, Tanzania, Guinea, Sri
Lanka, Pakistan, Kenya, Bolivia, Filippine, Zimbabwe, Marocco, Camerun, Costa
d'Avorio, Guatemala; c) infine nel terzo gruppo erano presenti 15 Paesi con
tassi uguali o inferiori all'1 per cento all'anno: Bangladesh, Nepal, Zaire (ora
Repubblica democratica del Congo), Uganda, Haiti, Niger, Madagascar, Ghana,
Sierra Leone, Sudan, Zambia, El Salvador, Honduras, Perù, Cile.
La
situazione ha subito pochi cambiamenti, riconducibili essenzialmente alla
variazione politico-territoriale dei vari Stati.
Secondo Sir Arthur Lewis,
uno dei padri dell'economia dello sviluppo, il fatto che negli anni Sessanta e
Settanta un terzo dei Paesi considerati abbiano registrato tassi di crescita del
prodotto pro capite superiori al 3 per cento costituisce un risultato
formidabile.
Un successo, tuttavia, che ha comportato costi non
trascurabili. L'aumento del reddito è andato soprattutto a vantaggio dei
gruppi economici più forti all'interno dei Paesi in via di sviluppo,
mentre la gran massa della popolazione ha migliorato solo in misura limitata le
proprie condizioni di vita e ha perso spesso le garanzie di cui godeva
all'interno delle società tradizionali. L'aumento della popolazione in
seguito alla riduzione dei tassi di mortalità, grazie all'estensione a
questi Paesi delle cure mediche moderne, contribuisce infatti a mantenere bassi
i salari. Sul piano esterno, poi, la partecipazione di questi Paesi alla
divisione internazionale del lavoro è subordinata ai bisogni dei Paesi
avanzati, e anche l'industrializzazione al loro interno costituisce spesso la
conseguenza del decentramento della produzione a livello mondiale attuata dalle
imprese multinazionali. Queste ultime, in effetti, sono alla ricerca di
manodopera a buon mercato e, soprattutto in quegli anni, investono
massicciamente nel Terzo mondo, creando filiali che effettuano fasi del ciclo
produttivo che richiedono un forte impiego di forza lavoro.
Nell'ambito di
un sistema economico mondiale in via di rapida costituzione, ai Paesi del Terzo
mondo viene così riservata una posizione di periferia, rispetto ai Paesi
avanzati, centro ed elemento motore del sistema. Pochi Paesi in via di sviluppo
raggiungono la fase del decollo, quando gli investimenti sono sufficienti ad
innescare un processo di crescita capace di autoalimentarsi (ossia di non
interrompersi alla prima difficoltà). Tuttavia, la crescita continua
della produzione e del prodotto pro capite forniscono, in quel momento, la
speranza che presto o tardi al decollo sarà possibile
arrivare.
Questo meccanismo di crescita dipendente si è tuttavia
interrotto all'inizio degli anni Ottanta per effetto della crisi del debito, in
cui larga parte del Terzo mondo si è trovata immersa.
I forti
crediti concessi dalle banche occidentali ai Paesi in via di sviluppo, nei primi
anni Ottanta si rivelano in gran parte inesigibili, in quanto i Paesi debitori
non sono in grado di produrre la ricchezza necessaria per restituirli e per
pagare gli elevati interessi ad essi associati. Ma i Paesi creditori, la Banca
mondiale, e il Fondo Monetario Internazionale costringono i Paesi debitori a
ridurre importazioni e consumi per far fronte agli impegni. Le conseguenze si
fanno ben presto sentire: la crescita dei Paesi più indebitati si arresta
e in alcuni casi il prodotto pro capite diminuisce. Per l'insieme dei Paesi del
Terzo mondo gli anni Ottanta sono stati un decennio perduto per lo sviluppo
mentre per i Paesi più poveri dell'Africa i decenni perduti sono stati
due. Si sono salvati soltanto i Paesi in via di sviluppo dell'Asia orientale e
meridionale, che hanno richiesto pochi crediti e che hanno attuato una politica
di forte espansione delle esportazioni, soprattutto Hong Kong, la Corea del Sud,
Taiwan e Singapore. Durante gli anni Novanta la situazione non migliorò:
anzi l’insorgere di nuovi, sempre più cruenti conflitti (in Sierra
Leone, in Ruanda, in Etiopia, ecc.) determinarono un ulteriore aumento della
povertà, cui si accompagnava una costante ricerca di salvezza
rappresentata dalla fuga nei Paesi vicini o, in alcuni casi, nei Paesi
europei.
I NUOVI RICCHI: SCEICCHI E SAMURAI
La ridefinizione delle gerarchie economiche
mondiali ha avuto luogo a partire dai primi anni Settanta sull'onda di
più fattori concomitanti. Come risultato l'opinione pubblica ha scoperto,
grazie all'informazione, spesso e volentieri deformata, fornita dai mass media,
l'esistenza di nuovi centri di potere economico.
Gli anni Settanta hanno
visto emergere il peso relativo dei Paesi produttori di petrolio, riuniti in
un'associazione denominata Opec, e rappresentati soprattutto all'inizio per lo
più da Stati arabi del Medio oriente. Il petrolio, fonte energetica
fondamentale nello sviluppo industriale, era stato per tutto il periodo
postbellico assai conveniente, anche se l'opinione pubblica dei Paesi
industrializzati credeva che i Paesi produttori (che in qualche caso avevano
nazionalizzato l'estrazione del greggio: così il Messico negli anni
Quaranta e l'Iran negli anni Cinquanta) ne ricavassero cospicue entrate. Nel
1973 i Paesi arabi mediorientali produttori di petrolio attuarono un embargo
delle forniture per forzare gli Stati Uniti, e i Paesi occidentali, a esercitare
pressioni su Israele, in guerra con l'Egitto. Agendo come «cartello»,
cioè come associazione, alzarono di comune accordo il prezzo del greggio,
quadruplicandolo, da circa tre a circa dodici dollari al barile. La momentanea
crisi degli approvvigionamenti e il contraccolpo sulle economie dei Paesi
industrializzati, che vedevano alzati bruscamente i costi dell'energia, è
stata definita «il primo shock petrolifero» (e nei due anni seguenti
ebbe luogo una vera e propria recessione economica nei Paesi industrializzati) o
«la prima crisi petrolifera». Ce ne fu infatti una seconda, nel
1978-79, quando, in corrispondenza della crisi politica in Iran, il prezzo del
greggio balzò ancora, da circa quindici a trentacinque dollari al barile.
Alle crisi petrolifere, combinate con altri fattori, come il ciclo di lotte
sociali che si è svolto un po' in tutto il mondo industrializzato fra la
fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, le economie
occidentali risposero con drastiche ristrutturazioni e riconversioni. Questi
fenomeni sono stati in buona misura appannati agli occhi dell'opinione pubblica
dall'enfatizzazione del problema dei prezzi del petrolio, utile tra l'altro a
creare dei comodi capri espiatori negli esosi «sceicchi». In
realtà, le crisi petrolifere colpirono in misura maggiore le economie
più dipendenti dalle importazioni di greggio, come quella giapponese e
quelle dell'Europa occidentale, mentre gli Stati Uniti poterono valorizzare i
propri ingenti giacimenti.
In secondo luogo, la necessità di
contrastare la forza del cartello dell'Opec spinse ad estendere le ricerche di
giacimenti per differenziare le aree di approvvigionamento, presto estese a
Paesi africani (Angola, Gabon), asiatici (Indonesia) e sudamericani (Ecuador). E
si scoprirono presto produttori di petrolio anche alcuni Paesi europei come la
Gran Bretagna e la Norvegia. L'aumento della concorrenza, e la necessità
dei produttori di tenere alta la produzione per non perdere entrate (accentuata,
nel caso di Iran e Iraq, dall'esigenza di finanziare la guerra in corso tra
loro, tra il 1980 e il 1988), hanno fatto ribassare nuovamente il prezzo negli
anni Ottanta, riportandolo poco sopra i quindici dollari al barile (dopo che era
arrivato a punte di quaranta dollari). Durante gli anni Novanta il prezzo
continuò a scendere, arrivando più o meno ai livelli di partenza.
In ogni caso, nel giro di un quindicennio l'esportazione di greggio ha permesso
entrate imponenti (i «petroldollari») a Paesi non industrializzati,
spesso dalle strutture sociali arcaiche, modificandone la
fisionomia.
Ciò che ha colpito la fantasia dell'opinione pubblica
sono state soprattutto le incredibili spese voluttuarie degli
«sceicchi» (modo sbrigativo per denominare i sovrani degli Stati della
penisola arabica), e il sensibile incremento delle loro fortune private,
generalmente investite nei Paesi occidentali. In realtà, le strutture
sociali di Paesi a lungo alla retroguardia del mondo arabo sono state
rapidamente trasformate, facendo attuare alla popolazione un salto di decenni
nel volgere di pochi anni.
La composizione stessa delle popolazioni di
alcuni dei Paesi del petrolio è profondamente mutata. Nel Kuwait la
maggioranza degli abitanti (priva però del diritto di voto) era straniera
(soprattutto sciiti iraniani, prontamente espulsi durante il conflitto
Iran-Iraq, Stato, quest’ultimo, appoggiato proprio dal Kuwait), e negli
altri Stati della penisola arabica la popolazione si andava via via modificando
grazie alla permanenza di consistenti minoranze di lavoratori immigrati non solo
dai Paesi arabi, ma anche da Filippine, India e altri Paesi.
I Paesi
produttori, però, non rinunciarono a cercare valide alternative alla
fondamentale attività petrolifera, vista, soprattutto, la crescente
disposizione dei Paesi industrializzati di ricercare in metodi alternativi
nuove, possibilmente riproducibili, fonti di energia.
Il problema
dell'uso delle entrate petrolifere si è prospettato ovunque esse abbiano
rappresentato la più importante voce attiva del bilancio statale. L'Iran
dello scià Reza Pahlavi fu avviato ad una industrializzazione accelerata
finanziata dall'estrazione del petrolio. Il risultato fu la disgregazione della
società tradizionale prima che i programmi di sviluppo, mal diretti e
finalizzati agli interessi di una ristretta classe dirigente, potessero
migliorare il tenore di vita degli abitanti. Il punto di riferimento del
malcontento divenne il clero sciita, che dopo aver diretto la rivoluzione contro
lo scià (1979) ha ispirato il nuovo regime. Il caso iraniano, dove
l'impatto con l'improvvisa ricchezza dei petroldollari ha avuto esiti
rivoluzionari, ha rappresentato uno spauracchio per gli altri Paesi del
petrolio. Questi erano preoccupati che una improvvisa alterazione della
struttura sociale dei loro Paesi mettesse in pericolo la sopravvivenza dei
regimi, ed erano ancorati perciò ad una cauta politica
filo-occidentale.
Il petrolio ha beneficiato molti altri Paesi estranei
all'area del Golfo persico e della penisola arabica. In Gran Bretagna le entrate
petrolifere hanno aiutato la politica del governo conservatore durante gli anni
Ottanta. In alcuni Paesi dell'America latina, come il Messico (che era tuttavia
tra i grandi produttori sin da prima della Seconda guerra mondiale) e il
Venezuela, i petroldollari sono serviti a sostenere costosi programmi di
sviluppo: con limitato successo. In realtà, le entrate del petrolio,
lungi dal favorire le economie dei Paesi produttori, hanno generalmente
contribuito a squilibrarne lo sviluppo: sia perché hanno incoraggiato i
Governi a lanciare programmi lasciati a mezzo dal crollo delle entrate, sia
perché hanno contribuito a intaccare le economie tradizionali e ad alzare
l'inflazione, senza arrecare benefici reali alle popolazioni. Solo dove le
entrate petrolifere si sono inserite in un processo di crescita economica
più equilibrato i petroldollari hanno rappresentato una occasione per
aiutare lo sviluppo. Per i Paesi del Terzo mondo privi di queste fonti di
entrata, infine, le conseguenze a lungo termine dell'inflazione degli anni
Settanta sono state catastrofiche, perché la loro condizione di
dipendenza ne è risultata ulteriormente accentuata.
Il caso di
più spettacolare successo economico del dopoguerra (un caso, appunto, del
quale solo propagandisticamente viene talvolta proposta la
riproducibilità in altri contesti, come quello europeo) è
rappresentato dal Giappone. Gli economisti lo vogliono ai primi posti nella
graduatoria mondiale dei Paesi più industrializzati e tra quelli
creditori. Ed è indubbiamente una potenza industriale non solo in settori
tradizionali come la meccanica, ma anche nei settori di avanguardia come
l'informatica e in quello di produzione energetica. Grande potenza militare in
Asia dalla fine dell'Ottocento sino alla Seconda guerra mondiale,
aggressivamente espansionista e imperialista, il Giappone sembrava destinato nel
1945 ad una lunga eclisse. Il Paese fu governato direttamente per qualche anno
da un'amministrazione militare statunitense capeggiata dal generale Douglas
McArthur; le istituzioni politiche del Paese vennero rimodellate da esperti
americani. Posto sotto la tutela militare statunitense il Giappone fu anche
privato per espressa disposizione del trattato di pace di un esercito (anche se
successivamente fu ricostituita una forza di difesa). La ricostruzione
rispettò rigorosamente gli interessi delle grandi concentrazioni
industriali (zaibatsu), i cui indirizzi sono rappresentati nella politica
nazionale dal partito liberaldemocratico, che nonostante il nome è un
partito schiettamente conservatore, al potere fin da prima della guerra, con la
breve parentesi postbellica di alcuni Governi di coalizione con i
socialisti.
Le ragioni del successo giapponese sono diventate oggetto di
studio e retoricamente proposte ad esempio alle economie occidentali. Esse sono
in realtà assai meno complicate di quanto non vogliano alcuni
osservatori. Si compendiano nella intelligente organizzazione delle aziende,
nella grande attitudine innovativa, ma soprattutto nella possibilità
(aiutata certo da una cultura autoritario-paternalistica antica e radicata, e
opportunamente alimentata dai ceti dirigenti del Paese) di sfruttare per quattro
decenni la forza lavoro in misura impensabile nei Paesi industrializzati
d'Europa e negli Stati Uniti (grazie ad una legislazione del lavoro favorevole
alle imprese) e nel basso livello dei consumi privati. Il successo economico
giapponese è stato insomma realizzato dal lavoro dei Giapponesi, e a
scapito del loro benessere. Le grandi imprese e lo Stato giapponesi hanno
coordinato politiche di investimento in altri Paesi asiatici, dalla Corea,
tradizionale area di espansione del Giappone, a Taiwan, successivamente
all'Indonesia e alla Thailandia. Negli anni Settanta iniziarono investimenti sia
negli Stati Uniti sia in Europa occidentale, mentre trattative furono avviate
anche con la Cina.
Alla fine degli anni Ottanta sembrò che per la
prima volta il predominio del Partito liberaldemocratico fosse messo in forse
dall'avanzata dei socialisti. I risultati elettorali confermarono una ridotta
maggioranza conservatrice che però, nel 1993, venne a mancare, dando
spazio a una coalizione di sette partiti che dovette, l’anno seguente,
lasciare il posto a un’alleanza ibrida formata da forze
liberaldemocratiche e socialiste. Le cose non migliorarono e il Giappone dovette
far fronte a una grave crisi alla fine degli anni Novanta, che lo fece
precipitare dal nono al diciassettesimo posto della classifica mondiale di
competitività. Nel 1998 il liberale Keizo Obuchi fu eletto primo
ministro, sostituito due anni dopo, per motivi di salute, da Yoshiro Mori. Nel
2001 la carica di primo ministro, parallelamente a quella di presidente del
Partito liberaldemocratico, fu affidata a Junichiro Koizumi, cui spettò
il compito di risollevare le sorti di un’economia, un tempo trainante, e
ora, a causa anche di forti episodi di corruzione, negativamente pregiudicata.
L'ECONOMIA MONDIALE NEGLI ANNI SETTANTA, OTTANTA E NOVANTA
DALLA RICOSTRUZIONE ALLA GLOBALIZZAZIONE
L'economia mondiale del secondo dopoguerra si può distinguere schematicamente in
tre grandi fasi. Dalla fine del conflitto fino a tutti gli anni Sessanta si assiste a
una continua espansione dell'industria nelle economie capitaliste del mondo occidentale.
In questa prima fase il greggio e una vasta gamma di materie prime affluiscono dal Terzo
al Primo mondo in cambio di manufatti. Dai Paesi poveri a quelli ricchi s'instaura anche
un flusso di manodopera in cerca di lavoro e opportunità di mobilità sociale. Ancora
più rapida è l'industrializzazione e la modernizzazione delle economie pianificate del
blocco socialista (o Secondo mondo), sostenute dalle grandi risorse naturali dell'URSS
e dalle barriere doganali a difesa delle industrie dell'Europa dell'Est.
La seconda fase ha inizio con la crisi petrolifera dei primi anni Settanta. Mentre lo
sviluppo continua nelle economie socialiste e si assiste all'ascesa dei Paesi produttori
di petrolio (con fiumi di "petroldollari" che dal Medio Oriente e dal Venezuela finiscono
nelle banche di Londra, Zurigo e Francoforte), nonché all'industrializzazione di parte
del Sud-Est asiatico, l'economia del resto del mondo è prima in ristagno e poi in
recessione. La crisi arresta le migrazioni, aumenta la disoccupazione in Occidente
e il capitale internazionale affluisce ora più copiosamente verso i Paesi di nuova
industrializzazione, dove le imprese multinazionali e gli imprenditori locali
cominciano a sfruttare forza lavoro a basso costo e sufficientemente qualificata.
La terza fase, infine, vede nel crollo del blocco sovietico un punto di svolta epocale,
che segna la scomparsa di sistemi economici e ideologici tendenzialmente alternativi
al libero mercato. Così, dopo il 1989, si aprono all'economia liberista occidentale
nuovi e vasti mercati, con la privatizzazione delle imprese statali e la liberalizzazione
dei flussi di capitale e degli scambi commerciali, la creazione di nuove aree economiche
fortemente integrate (in Europa, nel Nord America, nell'Asia sud-orientale) e la
costituzione di potenti strutture di regolazione della liberalizzazione commerciale
(WTO, Organizzazione mondiale del commercio di beni, servizi e proprietà intellettuali,
nata nel 1994-95). Il sistema capitalistico si allarga a comprendere anche la Cina che,
pur mantenendo l'autocrazia del Partito comunista nell'organizzazione socio-politica
del Paese, di fatto adotta in questo periodo un modello di sviluppo tale da immettere
nel circuito liberista l'area più popolata del pianeta.
Da tempo, del resto, i meccanismi dell'economia non facevano più riferimento
solamente a realtà nazionali, ma a un quadro di carattere mondiale, nel quale
le economie dei singoli Paesi erano legate da rapporti di interdipendenza e da forme
di integrazione. In tale contesto gli Stati nazionali vedevano via via ridursi le proprie
prerogative, mentre cresceva il potere decisionale (anche a livello politico) delle grandi
imprese multinazionali e dei grandi centri finanziari sopranazionali come il Fondo Monetario
Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM). Gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo
si sono caratterizzati da questo punto di vista come un periodo di grandi cambiamenti
strutturali nell'economia mondiale che, insieme allo sviluppo accelerato delle moderne
tecnologie dell'informazione e dei trasporti, hanno prefigurato l'emergere della
cosiddetta "globalizzazione", che avrebbe dominato la scena internazionale del passaggio
al nuovo millennio. Globalizzazione (soprattutto ma non solo) economica, che significava
in sostanza "convergenza" verso un modello uniforme, a livello tendenzialmente mondiale,
di economia di mercato. La nuova "economia mondo", nella quale da allora siamo inseriti,
si fondava su un nuovo modo di produrre, caratterizzato da crescenti innovazioni
tecnologiche e dall'automazione dei processi produttivi, i quali, a parità di investimenti,
permettono di ottenere quantità crescenti di prodotto. E si fondava anche sulla
standardizzazione dei consumi (dove Coca-Cola e McDonald's rappresentavano gli esempi
più eclatanti della tendenza a creare stili di vita planetari, di matrice USA e veicolati
da tecniche di persuasione pubblicitaria che raggiungevano gli angoli più remoti del globo),
su meccanismi finanziari sempre più sofisticati e poco trasparenti, sullo smantellamento
progressivo del welfare state occidentale e su una nuova divisione internazionale del
lavoro, con le economie avanzate orientate ormai verso processi di deindustrializzazione,
terziarizzazione e delocalizzazione delle attività produttive in aree del mondo in cui
la manodopera costava meno e meno vincolanti erano la legislazione ambientale e quella
del lavoro.
E non mancarono, naturalmente, nuove contraddizioni e battute d'arresto. Sopraggiunsero,
per esempio, le drammatiche crisi economiche del 1997 e del 1998, con l 'esplosione
dei mercati finanziari e la recessione economica delle "tigri asiatiche", seguite
dalla crisi della Russia, di alcuni Paesi latinoamericani e dalla stagnazione del Giappone.
Nel dicembre 1999 arrivò anche l'inattesa contestazione antiliberista di Seattle, che
portava alla sospensione dell'assemblea del WTO e segnalava vistose crepe nel consenso
internazionale. Dalla seconda metà del 2000 si arrestava invece l'ascesa delle borse mondiali
e crollavano le capitalizzazioni dei titoli tecnologici e di Internet. Il 2000 terminava
in USA con la scadenza del mandato Clinton e l'inizio della presidenza repubblicana di
George W. Bush che, in nome degli interessi economici e strategici del Paese guida
della globalizzazione, affossava il più ambizioso accordo ambientale internazionale,
vale a dire la Convenzione di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti, e
incrementava notevolmente gli stanziamenti destinati alle spese militari. Così dunque,
prima ancora di Bin Laden e dei drammatici eventi dell'11 settembre 2001, il lato oscuro
della globalizzazione era già stato in parte illuminato nel corso degli anni Novanta.
L'OCCIDENTE E IL TERZO MONDO
Nell'ultimo dopoguerra l'abbandono delle tensioni tra Paesi permise al nuovo modo
di produrre, basato sulla grande industria automatizzata e inizialmente limitato agli Stati
Uniti, di fare la sua comparsa, prima, nei Paesi dell'Europa occidentale, in un momento
successivo in quelli dell'Europa dell'Est e, ancora più recentemente, in alcuni Paesi del
Terzo mondo. La nuova struttura della produzione provocò rilevanti mutamenti all'interno
delle varie realtà nazionali; il ruolo stesso dell'uomo rispetto alla macchina mutava e si
rendevano necessarie nuove figure professionali (si riduceva progressivamente la necessità
di lavoro elementare, mentre aumentava il fabbisogno di lavoratori qualificati). Nell'ambito
dei Paesi industrializzati il ruolo trainante di questo processo fu svolto dai tre poli
rappresentati da Stati Uniti, Europa e Giappone, che gestivano circa il 60% del commercio
mondiale e riuscivano a influenzare (al di là della propria area) anche la maggior parte
dei Paesi del resto del mondo; tuttavia i rapporti reciproci tra di essi erano fortemente
conflittuali e turbati da frequenti tensioni. Il Giappone si caratterizzava per la grande
eccedenza delle esportazioni sulle importazioni, soprattutto verso gli USA (di moltissimi
prodotti giapponesi veniva esportata la quasi totalità della produzione). Le eccedenze di
moneta estera, che la forte dipendenza dalle esportazioni comportava, venivano impiegate
dai giapponesi per contribuire al finanziamento della ricerca mondiale, ma soprattutto di
quella americana. Gli investimenti giapponesi negli USA crescevano a ritmi impressionanti;
la collocazione geografica, però, rendeva il Paese vulnerabile nei confronti dell'URSS e
della Cina, imponendo al tempo stesso la necessità dell'alleanza militare con gli Stati Uniti.
Inoltre, l'espansione dell'economia giapponese, unitamente allo sviluppo di numerosi Paesi
asiatici compresi nella sua area di influenza, aveva provocato lo spostamento del baricentro
dell'economia mondiale dall'Atlantico al Pacifico.
All'interno di quella che era la Comunità Economica Europea (CEE, il secondo grande
polo dell'epoca), nonostante la politica comune in materia commerciale, industriale,
tecnologica e monetaria, il predominio economico della Germania Federale sugli altri
Paesi faceva sì che il secondo polo venisse spesso identificato non con l'Europa comunitaria,
bensì con la Germania stessa. Si trattava di un Paese che presentava una situazione analoga
a quella giapponese, con elevata capacità commerciale e industriale, eccedenza delle
esportazioni e una moneta forte, che intratteneva rapporti privilegiati con l'Europa dell'Est.
Gli USA, pur avendo perduto il predominio indiscusso che li caratterizzava prima dell'ultimo
conflitto, conservavano un ruolo essenziale nel quadro internazionale. I maggiori segni
di debolezza della loro economia si potevano riassumere nella perdita di competitività,
nell'eccesso di importazioni sulle esportazioni, nel risparmio interno insufficiente,
nell'indebitamento verso l'estero (erano il maggiore debitore del mondo). Tuttavia non
si poteva negare la loro potenza militare, industriale, agricola, scientifica e tecnologica.
Particolarmente rilevante era il loro potere in materia finanziaria e monetaria disponendo
essi di una valuta, il dollaro, che restava la prima del mondo. I tre poli che dominavano
l'economia mondiale erano dunque i maggiori esportatori, possedevano le tre monete principali,
nonché le maggiori capacità finanziarie, industriali e tecnologiche del mondo. Restava
tuttavia indiscutibile la preminenza statunitense come potenza mondiale.
Nel contesto economico internazionale un particolare ruolo era poi assegnato ai
cosiddetti Paesi sottosviluppati: grazie al trasferimento dei nuovi processi
produttivi verso un gruppo consistente di Paesi del Sud del pianeta, a partire dagli
anni Sessanta si assistette al processo di industrializzazione del Terzo mondo, dove
si andava riducendo l'importanza del settore agricolo e si stava rafforzando quella
del comparto industriale. Lo sfruttamento della mano d'opera a basso prezzo presente
in ampia misura in questi Paesi, fece sì che, nel corso degli anni Sessanta-Settanta,
i Paesi industrializzati decentrassero molte produzioni nei Paesi sottosviluppati. In alcuni
Paesi (particolarmente dinamici) dell'Est asiatico, poi, la capacità di dotarsi rapidamente
delle tecnologie microelettroniche permetteva di esportare non solo prodotti finiti, ma di
vendere anche impianti completi a tecnologia avanzata ai Paesi sviluppati.
Questa realtà, tuttavia, non caratterizzava certo la maggior parte dei Paesi del Terzo mondo.
In effetti, mentre in Asia i Paesi di nuova industrializzazione registravano tassi di
crescita soddisfacenti, nell'Africa subsahariana e in America Latina le condizioni di
vita della popolazione peggioravano decisamente, con aumenti delle malattie, del tasso
di mortalità infantile e contrazione del tasso di scolarità, mentre si registravano una
forte riduzione delle importazioni e un rallentamento del processo di industrializzazione.
Un momento particolarmente delicato per questi Paesi fu legato alla crisi debitoria che, a
partire dagli anni Ottanta, colpì il Terzo mondo. Nel corso del decennio precedente i Paesi
avanzati avevano trasferito somme consistenti verso i Paesi sottosviluppati, alla ricerca
di quegli impieghi profittevoli che le conseguenze della crisi petrolifera impedivano di
realizzare nel mondo sviluppato (ma le risorse concesse servirono anche per contrastare i
movimenti di liberazione nazionale e finanziare, viceversa, regimi corrotti e dittature).
Vennero così avviati nel Terzo mondo ambiziosi processi di industrializzazione, utilizzando
i prestiti che i Paesi avanzati concedevano in misura rilevante. Tuttavia, alla fine degli
anni Settanta gli effetti della crisi mondiale si tradussero, per i Paesi debitori non
produttori di petrolio, in aumenti sempre crescenti dei tassi d'interesse e nella
contemporanea impossibilità di continuare a esportare verso il mondo sviluppato che,
colpito dalla recessione, era incapace di assorbire i loro prodotti e ostacolava le loro
esportazioni con tutta una serie di misure protezionistiche. Si avviò così una crisi di
portata enorme, resa manifesta per la prima volta nel 1982 con la sospensione del rimborso
del debito estero e degli interessi da parte del Messico. Si susseguirono allora numerosi
interventi da parte dei Governi dei Paesi creditori, delle banche occidentali e degli
organismi finanziari internazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale)
al fine di evitare il crollo del sistema finanziario internazionale. Le economie dei
Paesi debitori vennero messe sotto tutela dal Fondo Monetario per ottenere almeno il
pagamento degli interessi, mentre non ripresero, se non in casi sporadici, le concessioni
di nuovi prestiti necessari a proseguire i processi industriali già avviati e a produrre
le risorse necessarie ai rimborsi. Nonostante alcune riduzioni del debito a carattere
eccezionale, la situazione permase grave e lungi dall'essere risolta.
Inoltre, sempre nel corso degli anni Ottanta e Novanta, si registrò un forte aumento
delle disuguaglianze di reddito tra la fascia più ricca e la fascia più povera della
popolazione mondiale, collocate rispettivamente (da un punto di vista macro-economico)
nel Nord e nel Sud del pianeta: negli anni Settanta, infatti, il rapporto tra il reddito
del 20% più ricco e quello del quinto più povero dell'umanità era di 30 a uno, alla fine
degli anni Novanta esso era diventato di 60 a uno. All'aumento della disuguaglianza nel
mondo non furono certo estranei i processi di internazionalizzazione della produzione e
degli scambi. Questo perché la globalizzazione, che facilitava gli scambi internazionali
di ogni tipo (di beni-merce, finanziario, monetario) e aveva potenzialità enormi, in
quanto avrebbe potuto permettere una più equilibrata distribuzione delle risorse disponibili,
di fatto svolgeva un'azione positiva solo nei confronti di alcuni Paesi un tempo
sottosviluppati e ora in fase di rapida crescita (Cina, India, Brasile, Sud Africa),
ma non nei confronti di molti altri Paesi che continuavano a essere drammaticamente
arretrati (come tutta l'Africa subsahariana, ad esempio).
L'INTEGRAZIONE DEI MERCATI
Il fenomeno della "globalizzazione" è un processo di integrazione internazionale
delle attività economiche e produttive (flussi di merci, servizi, finanza, forza lavoro),
associato a una integrazione mondiale dell'informazione e delle conoscenze (telecomunicazioni,
reti informatiche, know-how tecnologico), degli scambi personali (migrazioni, mercato del
lavoro, turismo) e di diverse istituzioni e livelli di governo (per esempio l'Unione Europea,
accordi di libero scambio come il NAFTA o l'ASEAN, convenzioni e strutture internazionali
come il WTO). L 'interazione tra questi processi e soggetti, accelerata dalla dissoluzione
delle alternative ideologiche e politico-economiche al capitalismo, ha determinato a partire
dagli anni Ottanta del XX secolo una nuova configurazione dell'economia e della politica
mondiali. Mercati e imprese, in primo luogo le imprese transnazionali, sono stati i
protagonisti di questa nuova fase, con il supporto di politiche neoliberiste che hanno
determinato (in maniera più o meno estesa nei vari Stati, ma con un segno omogeneo su
scala mondiale, derivato dal modello statunitense) il progressivo ritiro dell'intervento
pubblico dalle attività economiche strutturali (liberalizzazione e privatizzazione dei
mercati energetici, delle telecomunicazioni, dei trasporti) e dalle funzioni sociali
(sanità, previdenza, educazione).
Il segno principale dell'economia globale è stato
l'accelerazione, senza precedenti per la sua dimensione quantitativa, del commercio
mondiale: per quanto il tasso di crescita fosse elevato anche nel periodo precedente
(grosso modo doppio rispetto alla crescita del prodotto interno lordo delle Nazioni),
è negli anni Novanta che la progressione del commercio mondiale si differenzia nettamente
dalla crescita della produzione e del reddito. Infatti, tra il 1990 e il 2000, mentre
la produzione e il reddito mondiali sono cresciuti rispettivamente del 27% e del 25%,
il volume delle esportazioni era pressoché raddoppiato (+ 96%), e in valore monetario
era cresciuto dell' 80%. Lo sviluppo del commercio ha interessato i prodotti agricoli,
minerari, industriali e i servizi, ma non allo stesso modo. La crescita si è concentrata,
in particolare, sui beni industriali e sui servizi (in primo luogo trasporti globali,
turismo, servizi finanziari), che all'inizio del XXI secolo rappresentavano circa il 20%
del commercio mondiale. Così, a fronte di una crescita del 22% della produzione agricola,
vi è stata una crescita del 54% del volume delle esportazioni agricole, mentre per i
prodotti industriali a fronte di una crescita del 30% del volume della produzione, il commercio
è aumentato del 210% in volume e del 94% in valore.
Per effetto della internazionalizzazione della produzione e della globalizzazione
dei mercati, soprattutto nelle aree ricche del pianeta, è mutata radicalmente anche
la qualità del commercio mondiale. Il commercio internazionale è diventato sempre meno
lo scambio tra prodotti diversi (materie prime contro prodotti industriali finiti) e
sempre più uno scambio tra analoghe tipologie di merci e all'interno dello stesso sistema
di imprese, con il conseguente corollario di una concorrenza sempre più agguerrita. Come e
più che nella produzione, nel commercio internazionale sono emersi anche nuovi attori
geopolitici. La triade USA, Europa e Giappone, ha continuato a dominare gli scambi, ma
nel corso degli anni Novanta hanno assunto un peso crescente nell'economia mondiale
anche altri Paesi asiatici, in primo luogo la Cina, Taiwan e la Corea (la cui quota
totale sull'export mondiale è passata dal 2,8% del 1980 al 5,8% del 1990, al 9% del 2000).
Sul complesso del commercio mondiale, si è invece ridotta la quota dei Paesi dell'Unione
Europea - al cui interno sono però fortemente aumentati gli scambi - e, tra questi, anche
dell'Italia. Infine, alle soglie del XXI secolo grandi aree del mondo restavano ancora ai
margini della globalizzazione: con la caduta dei prezzi del petrolio del 1998 si dimezzava,
per esempio, il peso degli Stati arabi, mentre, per motivi diversi, si contraeva anche il
ruolo economico dell'ex Europa dell'Est e l'Africa riduceva drasticamente il valore reale
delle sue esportazioni.
LA GRANDE CRISI FINANZIARIA DEL 2008
Nell'autunno del 2008 una crisi economica e finanziaria partita dagli Stati Uniti d'America
coinvolse in breve tempo la gran parte dei Paesi industrializzati innescando una recessione
di portata mondiale che non aveva avuto eguali per dimensioni e diffusione prima di allora.
Definita la peggior crisi economica dopo quella del 1929, la crisi del 2008 proveniva dal
centro del sistema, cioè da Wall Street, e mise in ginocchio l'intero segmento; la sua entità
fu quindi più ampia e investì il cuore della globalizzazione, che trovava nella finanza
l'elemento chiave. La crisi ebbe inizio nell'agosto 2007, in seguito alla politica del
credito facile e più precisamente per il crack dei cosiddetti mutui
subprime
(cioé i prestiti associati a garanzie basse o nulle dei debitori e si parla di mutuo
subprime per indicare che si tratta di un mutuo effettivamente a rischio).
Una seconda causa va ricercata negli strumenti della finanza derivata utilizzati per
rendere possibili le suddette transazioni. In misura massiccia debiti come i singoli
mutui immobiliari vennero raggruppati e cartolarizzati, trasformati cioè in titoli,
collocati poi sul mercato. L'onda lunga della crisi innescata dall'implosione dei
mutui immobiliari americani, crisi mai digerita dal sistema economico statunitense,
irruppe nell'autunno 2008 con una successione di eventi allarmante: i mercati
azionari internazionali vennero letteralmente messi sotto pressione e il sistema
finanziario globale venne scosso dagli effetti che le insolvenze sul mercato dei
mutui statunitensi ad alto rischio catapultarono sulle borse di tutto il mondo.
L'ondata di vendite che investì le borse portò gli indici a subire una drastica
riduzione del loro valore. La crisi generò una pluralità di dissesti bancari. La
lista delle vittime sembrava crescere di settimana in settimana, cambiando il volto di
Wall Street e dando alle autorità ruoli nuovi. Dopo un difficile iter parlamentare
preceduto da una fitta serie di consultazioni e da appelli al senso di responsabilità
comune, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti approvò in via definitiva
il pacchetto di misure di emergenza volto ad arginare la crisi finanziaria. Il
maxi piano di salvataggio Usa ammontava a 850 miliardi di dollari: ai 700 miliardi
per soccorrere il sistema finanziario infatti se ne aggiunsero altri 150 per un
pacchetto decennale di sgravi e deduzioni fiscali per cittadini in difficoltà con i
mutui. L'obiettivo fu senz'altro quello di tentare di stabilizzare i mercati finanziari,
dai quali poi dipendeva la sorte di tutti gli altri settori economici. Gli effetti,
come sempre, partendo dagli Usa arrivarono anche in Europa, dove molte banche avevano
acquistato e rivenduto ad altri gruppi bancari e assicurativi le obbligazioni strutturate
sui mutui
subprime. Di fronte a questa drammatica situazione divenne indispensabile
l'intervento delle banche centrali, che già in stato di massima allerta, iniettarono liquidità
supplementari per garantire il funzionamento dei sistemi interbancari. La discesa delle
quotazioni aumentava infatti il rischio di scalate ostili che avrebbero potuto favorire
una speculazione selvaggia, forte del difficile momento vissuto in questa fase dal mercato.
In tutta Europa i crescenti timori di una recessione spinsero i capi di Stato e di governo a
lanciare un piano di azione comune che desse una risposta coordinata alla crisi di credibilità
e di liquidità dei mercati finanziari europei. Il presidente di turno dell'Unione europea, il
francese Nicolas Sarkozy, raccogliendo un sostanziale consenso sulla necessità di risposte
comuni, il 12 ottobre convocò un vertice straordinario dell'Eurogruppo per dare un
inquadramento coordinato alle iniziative nazionali sulla crisi. L'accordo raggiunto
dai quindici Paesi dell'Eurozona prevedeva garanzie sui prestiti interbancari e
garanzie pubbliche in caso di eventuali ricapitalizzazioni delle banche in difficoltà.
L'accordo era flessibile, nel senso che ogni Paese avrebbe deciso in concreto come
porre in atto queste garanzie. Sarkozy espresse inoltre l'auspicio che misure analoghe
fossero adottate da tutti i Paesi dell'Unione europea. Anche perché, come sottolineato
dal commissario Ue agli Affari economici Joaquin Almunia, non vi era dubbio che le
turbolenze sui mercati stessero già colpendo duramente famiglie e imprese. Infatti,
nonostante l'attivismo dei governi e delle Banche centrali, i listini delle borse europee
e mondiali continuavano a crollare ovunque. La recessione globale colpì anche l'Asia, dove
persino la Cina, che aveva spinto molto sull'acceleratore prima delle Olimpiadi, ora era
in fase di rallentamento. Il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, in linea con la
Commissione Ue, prevedeva per il nostro Paese un'ulteriore perdita di competitività e il
proseguimento della stagnazione in atto almeno fino a metà del 2009. Per rispondere in
modo sistemico alla crisi finanziaria mondiale venne raggiunto un accordo tra il
presidente americano uscente George W. Bush, il presidente di turno Ue Sarkozy e il
presidente della Commissione europea Manuel Barroso sull'organizzazione di un vertice
internazionale che si sarebbe tenuto il 15 novembre 2008 a Washington. Al centro del
vertice G20, a cui avrebbero partecipato i 19 Paesi più industrializzati del mondo più
l'Unione Europea, l'analisi di una risposta alla crisi globale, ma anche un ripensamento
dell'architettura finanziaria mondiale e l'elaborazione di strategie per la protezione del
libero mercato: per questo, insieme ai leader mondiali, sarebbero stati presenti al tavolo
anche le maggiori istituzioni sovranazionali, come Onu, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale.
GLI EFFETTI AMBIENTALI DELL'INDUSTRIALIZZAZIONE
L'industrializzazione è stata
considerata un fenomeno intrinsecamente positivo sia dai sostenitori dello
sviluppo capitalistico, sia da quelli dell'economia socialista. Liberale o
marxista, la cultura occidentale è da un secolo, e in modo assolutamente
maggioritario, industrialista; l'anti-industrialismo è stato, sino agli
anni Sessanta, una componente delle ideologie reazionarie. Le prime clamorose
incrinature all'ottimismo industrialista vennero nel 1972 da un osservatorio
inaspettato: il Club di Roma, un centro di studi economici legato a influenti
ambienti industriali e finanziari, pubblicò con grande risonanza un libro
bianco sui Limiti dello sviluppo. Nel libro si sosteneva che le risorse naturali
del pianeta terra sono limitate, e che dato il livello di consumi dei Paesi
avanzati, l'accesso di sempre nuovi Paesi alla industrializzazione e la forte
crescita demografica della popolazione del pianeta nel dopoguerra, non era
possibile considerare illimitata la crescita economica e bisognava tener conto
delle conseguenze disastrose dell'industria sull'ambiente naturale; si sosteneva
quindi la necessità di correggere il modello di sviluppo e di
incoraggiare politiche demografiche nel Terzo mondo (dove i tassi di crescita
della popolazione sono più alti) per contenere i fenomeni
segnalati.
Le tesi del libro furono vivacemente contestate: il rapporto fu
considerato espressione dell'interesse dei Paesi ricchi e un invito a mantenere
quelli poveri nella loro condizione. Il paradosso del rapporto stava nel fatto
che la limitazione degli sprechi caratteristici della società dei consumi
era da sempre un argomento dei critici del sistema capitalista, che sorprendeva
vedere auspicata da apologeti di quello stesso sistema. I fenomeni additati
all'attenzione erano però reali, e ad essi si era andata aggiungendo
dagli anni Settanta la preoccupata attenzione di molti studiosi per le
conseguenze ambientali a lungo termine dell'industrializzazione generalizzata e
incontrollata del mondo. Questa preoccupazione aveva animato le organizzazioni
ecologiste, note genericamente col nome di «verdi», di diversissima
origine e tendenza, sorte in Europa occidentale dagli anni Settanta e
affermatesi soprattutto nella Germania occidentale.
Sul punto della
questione demografica sin dagli anni Sessanta gli scienziati occidentali e
statunitensi, favorevoli a diffondere il controllo delle nascite nel Terzo
mondo, avevano incontrato la convergente opposizione di alcuni teorici del
terzomondismo, e in particolare dei leader cinesi, e della Chiesa cattolica, che
sul principio del controllo delle nascite ha sempre manifestato una ferma
opposizione. Di fatto, la Cina avviò più tardi una rigida politica
di controllo demografico; e le indicazioni della Chiesa furono tranquillamente
disattese da moltissimi cattolici. Inoltre, le politiche di controllo
pianificate dai Governi risultano generalmente inefficaci, quando non producono
conseguenze aberranti. In India il Governo di Indira Gandhi ricorse in qualche
caso alla sterilizzazione forzata; in Cina le famiglie contadine, incoraggiate a
limitare il numero dei figli, fecero largo ricorso all'infanticidio delle
femmine. Inoltre, molti osservatori preoccupati del boom demografico del Terzo
mondo, furono nel contempo allarmati dal forte calo delle nascite nei Paesi
europei, e spesso ostili anche alle conseguenti immigrazioni dal Terzo mondo in
Europa. Per ammissione generale, il vero modo di rallentare la crescita
demografica consisteva nell'innalzare il livello di benessere delle popolazioni.
è migliorando le condizioni del Terzo mondo, si diceva, che se ne limita
l'esplosione. D'altra parte, lo sforzo dei Paesi del Terzo mondo per
industrializzarsi fu a sua volta generatore di danni: il Brasile rivendicava il
diritto di sfruttare come credeva il bacino amazzonico; ma la distruzione delle
sue foreste produceva alterazioni al clima del pianeta, dunque possibili danni a
carattere mondiale (anche se, va aggiunto, la sorte degli alberi forse
preoccupò i mass media occidentali più di quella degli indigeni
sterminati dall'avanzata dei coloni). Più in generale, il complesso degli
scarichi industriali di tutto il mondo sembrò cooperare allo stesso
risultato, detto con formula efficace «effetto serra»: sull'argomento
non c'era tuttavia unanimità neppure tra gli scienziati, incerti nel
valutare le conseguenze di un innalzamento della temperatura del pianeta, e
scettici qualche volta sull'importanza stessa del fenomeno. La desertificazione
dei suoli era reale: vi collaboravano le costruzioni di strade, aree urbane,
edifici, in un processo di cementificazione continuo; ma nella maggior parte del
globo la desertificazione era in realtà frutto dell'abbandono delle
colture prodotto dalla mancanza di interventi adeguati o dall'intervento di
fattori di danno, come i disboscamenti, la mancata canalizzazione delle acque,
ecc.
Altre conseguenze nocive per l'ambiente, ma per estensione per l'uomo,
derivavano dall'uso dell'energia nucleare, sia per scopi militari (esperimenti
in tempo di pace per realizzare ordigni più potenti), sia per scopi
civili. Sugli effetti degli esperimenti nucleari era stato sempre mantenuto dai
Governi uno stretto riserbo; quanto all'uso civile dell'energia nucleare,
l'incidente alla centrale di Cernobyl, in Unione Sovietica, nel 1986, fu solo il
caso più noto e tragico; fughe radioattive si sono probabilmente
verificate in altre centrali dell'Urss e degli Stati Uniti. Inoltre, le stesse
industrie tradizionali, a cominciare dalla siderurgia e dalla chimica, erano in
grado di danneggiare indirettamente la salute delle popolazioni, come segnalava
la correlazione riscontrata tra tumori e inquinamento. Senza dire degli
incidenti, che potevano assumere proporzioni catastrofiche, come la nube tossica
prodotta a Bophal, in India, dalla fuoriuscita di gas, l’isocianato di
metile, da uno stabilimento della Union Carbide, un'industria chimica
statunitense, provocando migliaia di morti (1984), o il caso di Seveso, in
Italia.
A partire dagli anni Ottanta, insomma, l'attitudine nei confronti
dell'industrialismo mutò sensibilmente, almeno nei Paesi da tempo
industrializzati. L'argomento sollevò polemiche combattute a colpi di
statistiche, non sempre affidabili, e di previsioni, non sempre ragionevoli.
Ottimisti e catastrofisti dissentirono su quasi tutto, comprese le evidenze. Non
è di consolazione il constatare che sia l'industrialismo capitalista, sia
quello collettivista hanno prodotto guasti ambientali e inquinamento. In ogni
caso, l’atteggiamento di tutela e di difesa dell’ambiente si fece
sempre più forte e incisivo, divenendo basilare e imprescindibile per
ogni decisione di tipo politico-economico.
SEVESO
Il 10 luglio 1976 da una fabbrica vicino a
Milano, l'Icmesa di Seveso, si sprigionò una nube che, trasportata dal
vento, si depositò sui terreni circostanti e naturalmente sulle
abitazioni. Non era la prima volta che dalle fabbriche delle zone si alzavano
nuvole di fumo e di gas. Anche la puzza lì era di casa, anche
l'irritazione agli occhi e alla gola.
Solo dopo 10 giorni cominciò a
trapelare la verità. La nube uscita dalla Icmesa conteneva una delle
più pericolose sostanze tossiche che si conoscano: la diossina, un
composto del cloro.
Non erano note con esattezza gli effetti che questa
sostanza poteva produrre: nel giro di qualche giorno tuttavia gli alberi della
zona colpita dalla nube persero le foglie, la vegetazione avvizzì, gli
animali da cortile cominciarono a morire. E le persone? Per settimane i
responsabili (i dirigenti della fabbrica, gli amministratori comunali, quelli
della regione) tacquero o diedero versioni confuse e contraddittorie. Cercavano
di minimizzare, di nascondere il gravissimo pericolo che incombeva sulla
gente.
Gli effetti della diossina erano stati tristemente rilevati durante
la guerra del Vietnam quando gli Americani avevano riversato sulle campagne
vietnamite tonnellate di diserbanti (dove c'era anche la diossina) per
distruggere l'agricoltura. Le conseguenze di questo avvelenamento furono
gravissime; le persone accusavano arrossamenti della pelle, comparsa di eczemi
anche a distanza di mesi e di anni, la progressiva necrosi del fegato e infine
la morte. è stata notata anche la comparsa di tumori. La diossina ha
inoltre la capacità di mutare il patrimonio genetico con il rischio
quindi di far nascere bambini deformi.
A Seveso e nelle cittadine intorno
solo a poco a poco si venne a conoscenza di questi rischi. Ma non furono prese
decisioni immediate e la diossina ebbe il tempo di penetrare in
profondità nel terreno in seguito alle piogge. Nell'agosto la gente fu
fatta sgomberare dalla zona più direttamente colpita dalla nube: si
trattava di lasciare il lavoro, le abitazioni, le scuole, ecc. Intanto molti
avevano già avvertito i sintomi dell'avvelenamento. Poi cominciò
l'opera di bonifica.
Tutto questo è potuto accadere perché
fabbriche, anche quelle piccolissime, sorgevano vicino ai centri abitati,
soprattutto non esisteva alcun controllo sulla nocività degli
insediamenti industriali. Solo nel 2002 la Cassazione sentenziò la
risarcibilità per danni morali degli abitanti di Seveso (e della zona)
che erano stati colpiti dalla nube tossica.
DROGA
Laudano, oppio, assenzio: questi i nomi
delle droghe che erano di moda nel secolo scorso, quando i dandy inglesi o i
poeti maledetti francesi frequentavano i caffè autorizzati di Parigi o le
fumerie di Londra.
Morfina, cocaina: ecco le droghe divenute celebri nei
primi decenni del ventesimo secolo, quando ad usarle erano le grandi spie, le
celebri attrici del cinema muto o gli scienziati come Sigmund
Freud.
Marijuana, hascisc, Lsd, le droghe della contestazione degli anni
Sessanta e dei primi anni Settanta, gli «spinelli» o i
«trip» dei grandi concerti rock dove migliaia di giovani
«fumavano» per sentirsi liberi dai condizionamenti e rompere con le
convenzioni.
Eroina: la droga degli ultimi anni, la droga dei giovani morti
di overdose, dei ragazzi che scippano vecchiette per procurarsi i soldi
necessari per comprarsi la «dose» giornaliera, dei giovani in fila in
farmacia per chiedere una siringa, emaciati volti di esseri umani in crisi di
astinenza o ammalati di Aids.
E, di più recente acquisizione, il
crack, l'ecstasy, l'ice, le droghe sintetiche, facili da procurare e altrettanto
facilmente deleterie.
Ma ancora la cocaina, lo stupefacente di
“lusso’’.
Messa così, parlare di droga sembra
facile. Tutti, almeno a grandi linee, sostengono di sapere cos'è la
droga, anche se a molti non viene più in mente il pepe o la cannella
venduti dal droghiere, e sono pochi coloro che si chiedono, quando si parla di
droga, se sia più corretto parlarne al singolare o al
plurale.
Cos'è, innanzitutto, la droga? Per il vocabolario è
«una sostanza secca usata per dare un gusto gradevole alle vivande»
oppure «una sostanza naturale o composto chimico con spiccata azione
stupefacente» (questo quanto specificato nel Dizionario Garzanti della
lingua italiana). Quest'ultima definizione potrebbe andare bene per alcune
droghe, per esempio l'eroina, ma non per l'Lsd o la marijuana che difficilmente
possono dare risultati «stupefacenti». L'Organizzazione Mondiale della
Sanità (Oms) ha dovuto rivedere più volte le definizioni relative
al termine droga fino a quella del 1980 in cui si definisce droga «ogni
sostanza capace di determinare uno stato di dipendenza o psichica o fisica o
ambedue in seguito alla sua somministrazione periodica o continuativa». Una
definizione del genere resta comunque insoddisfacente. Alcune droghe,
così come vengono comunemente intese, non rientrerebbero nella
definizione dell'Oms, mentre, rientrerebbero a pieno titolo molti medicamenti o
additivi alimentari o veleni che normalmente vengono chiamati farmaci,
anziché droghe.
Per uscire da tutto questo pasticcio forse è
meglio far riferimento all'Onu che nel 1967 intendeva per droga qualsiasi
sostanza che ha un'azione farmacologica psicoattiva, che provoca, cioè,
alterazioni dell'umore e dell'attività mentale. In tale senso sono
sostanze psicoattive non solo le droghe illegali come l'eroina o la cocaina ma
anche quelle, se così possiamo chiamarle, legali come le bevande
alcoliche, il caffè, il tè, il tabacco. A questo punto dovrebbe
risultare abbastanza chiara la confusione che è sempre stata fatta
attorno al concetto di droga. Confusione che non si presenta, invece, quando a
rispondere, anziché un esperto, è il primo passante che
incontriamo per strada: costui non avrà dubbi, è droga, anche se
con effetti diversificati, l'eroina, la cocaina, la marijuana, ovvero tutte
quelle sostanze psicoattive che la legge italiana del 1990 proibisce di
consumare.
La storia insegna che molte sostanze psicoattive sono state
diffuse, accettate ed usate o come gratificazione psicologica (alcool,
caffè, tè...) o per svolgere certi riti magico-religiosi (foglie
di coca, funghi allucinogeni) o come medicinali (oppiacei). Sempre, però,
l'uso di queste sostanze è stato controllato da chi, via via a seconda
delle culture esaminate, veniva considerato esperto della materia: stregone,
sacerdote o medico. Costoro avevano anche la possibilità di proibire, al
di fuori di certe particolari situazioni, l'uso delle sostanze psicoattive. In
alcuni casi storici, vennero rese illegali sostanze che al giorno d'oggi nessuno
si sognerebbe di considerare droghe: nel XVII secolo era proibito l'uso e il
traffico di tabacco nell'Impero ottomano, nell'Impero persiano, e in alcuni
Stati tedeschi come la Sassonia e la Baviera. Alla Mecca e al Cairo era
proibito, se non per uso strettamente medico, anche il caffè.
Ma la
proibizione più clamorosa è comunque quella legata al consumo
dell'alcool che il Corano vieta in tutto l'Islam e che il governo degli Stati
Uniti dichiarò illegale con la legge Volstead del 1920. Furono gli anni
del proibizionismo che fino al 1933 videro le carceri americane riempirsi di
decine di migliaia di persone che infrangevano la legge. Quando si parla di
droga, dunque, si parla anche di divieto, e quando si parla di qualcosa di
proibito ecco che subito qualcuno infrange la legge.
Il fatto è che
è difficile per chiunque ammettere che chi cerca e consuma sostanze
psicoattive lo fa per la semplice ragione di «star meglio».
Così risponde chi consuma caffè, tabacco, alcool o eroina. Le
conseguenze, a volte, sono tremende, ma chi si sofferma a considerarle fa, in
genere, dei distinguo: per esempio si ritiene, nella maggioranza dei casi, che
un forte fumatore di tabacco corra rischi gravissimi per la propria salute ma
che in fondo quelli sono fatti suoi; un forte consumatore di alcool viene
moralmente riprovato più di un consumatore di tabacco perché
l'alcool provoca dipendenza fisica e una sindrome di astinenza che conduce, a
volte, al delirium tremens. Ma più che scuotere la testa in segno di
disapprovazione non si fa. Diverso il discorso per l'eroina o la cocaina il cui
consumo è punito dalla legge e che pertanto, automaticamente,
costituiscono il simbolo del male.
E male la droga ne fa davvero, non solo
per la sua assunzione ma per l'inevitabile corollario dovuto al suo prosperare
in un mondo di frontiera, quello dell'illiceità. Intanto i
tossicodipendenti sono moltissimi, e il loro numero è in costante aumento
grazie anche alla diversificazione delle sostanze stupefacenti e alla loro
più o meno facile reperibilità. Inoltre sempre alto è il
rapporto tra coloro che fanno uso di stupefacenti e Aids.
Secondo il
professor Aiuti, esperto della lotta contro l'Aids, metà dei
tossicodipendenti che fanno uso di eroina è sieropositiva con punte del
70 per cento nei grandi centri urbani.
Tutto questo avviene perché
droga vuol dire soldi. E i soldi vogliono dire criminalità: nonostante il
sequestro di grossi quantitativi di eroina e di cocaina, il consumo e lo spaccio
di queste sostanze non sono rallentati. Il giro d'affari fa gola a troppe
persone. Come nell'America degli anni Venti, quando il proibizionismo faceva
prosperare i gangster che distillavano e distribuivano clandestinamente
l'alcool, così il giro della droga è controllato dalla grande
criminalità organizzata che si serve di decine di migliaia di
spacciatori, anche minorenni, per vendere la merce che viene comprata a prezzi
incredibilmente alti dai tossicodipendenti, a loro volta spinti alla
microcriminalità (scippi, furti, aggressioni) per ottenere il denaro
necessario all'acquisto della loro dose giornaliera. Nonostante gli sforzi delle
strutture preposte al recupero dei tossicodipendenti, sempre alto rimane il
numero annuo dei decessi in Italia (se nel 1987 erano 543, 6 dei quali
stranieri, nel 1996 si arrivò a 1.566, di cui 46 stranieri, scendendo,
nel 2000, a 863, di cui 31 stranieri: in tutti i casi la stragrande maggioranza
era rappresentata da maschi).