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ITINERARI - IL MONDO ATTUALE - STORIA - LA CRESCITA ECONOMICA MONDIALE

LE RICOSTRUZIONI E LA SOCIETÀ OPULENTA


Negli anni immediatamente seguenti la fine della guerra (1945-1947) in tutta l'Europa attraversata dal conflitto ebbe luogo il difficile ritorno ad un'economia di pace, in un confronto molto ricco di progetti per il nuovo assetto da dare alle società dell'Occidente, ma anche nell'incertezza delle strade da prendere per non ripiombare nella depressione che aveva caratterizzato gli anni Trenta. In alcuni Paesi, come Gran Bretagna e Francia, vennero impostate politiche economiche originali rispetto all'anteguerra. Ma la ricostruzione vera e propria ebbe inizio dopo la spaccatura tra i due blocchi e l'avvio del Piano Marshall, quando il panorama politico dei principali Paesi europei occidentali venne uniformato (con l'estromissione dai Governi dei partiti Comunisti) e le iniziali direttive seguite dalle autorità alleate in Europa rivedute. Gli aiuti e i crediti statunitensi vennero utilizzati in maniere diverse, e si innestarono su politiche economiche e sociali non coincidenti; se lo sfondo politico della ricostruzione era omogeneo, non lo erano le condizioni dei singoli Paesi.
In Gran Bretagna sin dal 1945 governavano i laburisti, i quali abbinarono a una politica estera di alleanza con gli Usa l'avvio di un Welfare State, o stato del benessere: un programma di intervento statale comprendente la nazionalizzazione di alcuni settori strategici, come la produzione di energia, e la creazione di un sistema capillare di assistenza sanitaria e pensionistica pubblica. Questo comportò un rilancio piuttosto lento dei consumi privati e l'adozione di una politica di austerità che perdurò sino all'inizio degli anni Cinquanta. La Gran Bretagna affrontava tuttavia più un rimodellamento delle sue strutture sociali che non una ricostruzione vera e propria: poiché le distruzioni dell'apparato industriale erano state tutto sommato modeste, l'industria britannica si rinnovò e razionalizzò assai meno di quanto non avvenne dove gli effetti della guerra costrinsero i governanti a interventi più radicali. D'altra parte, il Governo laburista non si proponeva affatto di modificare il sistema sociale britannico; i gangli dell'industria e della finanza private restarono intatti, contribuendo a perpetuare nel Paese una stratificazione sociale più rigida che sul continente. Né le nazionalizzazioni erano provvedimenti necessariamente sgraditi ai gruppi industriali: le miniere di carbone nazionalizzate vennero rilevate a prezzi vantaggiosi per i proprietari, tenuto conto della scarsa qualità di molti impianti, e della necessità di grandi investimenti per modernizzarli.
Anche in Francia fu attuata nell'immediato dopoguerra un'ondata di nazionalizzazioni, decretate dal Governo presieduto dal generale de Gaulle: ma esse ebbero luogo nell'ambito di un'economia dove la presenza pubblica era scarsa (solo nel 1945, ad esempio, fu nazionalizzata la Banca di Francia); inoltre, queste misure vennero viste con favore anche da tecnocrati e pianificatori che giudicavano l'intervento pubblico più efficace per la gestione del rilancio economico del Paese, senza modificarne per altro la qualità. La Francia ebbe, dopo la Gran Bretagna, la quota più alta degli stanziamenti del piano Marshall, e la quota più alta in assoluto degli aiuti gratuiti statunitensi. Il Paese aveva subito distruzioni consistenti: ma c'era in più la volontà politica di ancorare all'alleanza occidentale un Paese dove il partito Comunista era uscito dalle elezioni come la formazione politica più forte. Tuttavia, il rilancio francese risultò ostacolato dai costi della guerra coloniale in Indocina, nonostante anche in questo caso il Paese ricevesse consistenti aiuti dagli Usa. La Francia conobbe insomma una crescita economica costante ma non spettacolare; e cambiò fisionomia assai meno di Paesi più colpiti dalle distruzioni, come la Germania occidentale, o più arretrati, come l'Italia.
Il profilarsi della «guerra fredda» fece rapidamente tramontare i progetti di deindustrializzare la Germania coltivati durante il conflitto da alcuni consiglieri di Roosevelt. La divisione in zone di occupazione lasciò nel settore controllato dagli occidentali il cuore della Germania industriale d'anteguerra, la Ruhr, e le aree più densamente urbanizzate del Paese. Quando fu costituita la Repubblica Federale di Germania (1949) e rovesciata la tendenza a smantellare gli impianti industriali tedeschi, le basi per il rilancio della Germania esistevano tutte: impianti con tradizioni d'avanguardia, tecnici e manodopera qualificati, integrazione di industria e agricoltura, e immediatamente anche una massa di forza lavoro costituita dai Tedeschi cacciati dagli Stati confinanti (Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria) e fuggiti dalla zona di occupazione sovietica. Questa massa di milioni di persone (circa un quinto della popolazione tedesca occidentale), rinforzata sino all'inizio degli anni Sessanta, quando venne costruito il muro di Berlino, da un flusso di nuovi profughi dalla Germania orientale, assicurò un serbatoio di manodopera spesso qualificata e consolidò l'orientamento anticomunista del Paese.
La ripresa economica della Germania privilegiò anzitutto la ricostruzione delle strutture produttive, e solo in un secondo tempo i consumi; essa fu comunque rapida, al punto da essere definita «miracolo tedesco», con uno slogan propagandistico passato a luogo comune, insieme con l'altrettanto fortunata espressione «miracolo italiano», adoperata a proposito della crescita economica dell'Italia postbellica.
Questi luoghi comuni hanno banalizzato una realtà: la tumultuosa crescita complessiva delle economie occidentali proseguita per quasi un trentennio, dalla fine della guerra alla prima metà degli anni Settanta. Uno studioso dell'economia francese ha definito il periodo 1945-1974 «delle trenta gloriose» annate (con un gioco di parole che richiama le «tre gloriose» giornate insurrezionali parigine del luglio 1830). Tuttavia, anche l'Urss, i Paesi del blocco sovietico e la Cina ebbero una crescita, spesso, tenuto conto del punto di partenza, assolutamente eccezionale. (I risultati economici peggiori tra i Paesi dell'Est furono conseguiti forse dalla Cecoslovacchia, che era in partenza il Paese più industrializzato).
La forza dei Paesi capitalisti era di disporre dell'economia americana come volano e di un sistema di scambi commerciali ancorato alla parità tra dollaro e oro sancita dagli accordi economici di Bretton Woods (1944) e cessata solo nel 1971. La ripresa europea contribuiva al proseguimento del lungo boom economico, e la buona salute dell'economia americana (nell'ambito della quale le spese militari dirette e indirette avevano un'importanza notevole) sosteneva la crescita dell'Europa occidentale. Nel sistema venne presto integrato anche il Giappone, dove sotto il diretto controllo delle autorità militari statunitensi l'apparato industriale venne ricostituito nell'interesse dei grandi gruppi. Come nell'immediato dopoguerra gli Stati Uniti sottrassero aree di penetrazione economica alle potenze colonialiste europee, e soprattutto alla Gran Bretagna (tanto che, dal punto di vista economico, durante e immediatamente dopo la guerra fu contro di essa che gli Usa condussero le ostilità), così alla lunga i miracoli europei, e il generale rafforzamento dell'Europa occidentale (e del Giappone), hanno ridimensionato il peso degli Usa nell'economia mondiale: ciò che si è verificato a partire dagli anni Settanta.
La ripresa accelerata dell'Europa poté contare, tra l'altro, su disponibilità di manodopera a buon mercato, che assicurava un costo del lavoro relativamente basso: ovunque si assistette allo spostamento di popolazioni rurali emigrate dalle campagne a cercare lavoro nell'industria. In Germania, Francia e Gran Bretagna vi furono immigrati da Paesi europei più poveri (Italiani e poi Jugoslavi in Germania, Spagnoli e Portoghesi in Francia) e sempre più immigrati da Paesi extraeuropei, spesso provenienti da ex colonie (Algerini, Tunisini e Marocchini in Francia, Indiani, Pakistani e abitanti delle Indie occidentali in Gran Bretagna), ma non solo (Turchi in Germania). Inoltre, le materie prime dei Paesi del Terzo mondo sono state a lungo a bassissimo costo.
L'America fece da battistrada, esibendo già negli anni Cinquanta livelli di benessere diffuso mai conosciuti in precedenza e segnalati da tutti gli indicatori dei consumi: dalla quantità e qualità dell'alimentazione, al tipo e alla localizzazione dell'abitazione (gli anni Cinquanta videro la crescita dei cosiddetti "suburb'', le periferie residenziali abitate da impiegati e strati di operai qualificati, scenario di tanti film hollywoodiani e simbolo tra i più appariscenti dell'"american way of life''), alla dotazione di elettrodomestici, alla diffusione dell'automobile, al mutamento dei modi di vita, con la generalizzazione delle vacanze e dell'accesso a livelli di istruzione superiore per i figli. Questo insieme di fenomeni è stato compendiato nell'espressione «società opulenta» (affluent society). Coniato per gli Stati Uniti degli anni Cinquanta dall'economista John Kenneth Galbraith (fu il titolo di un suo libro pubblicato nel 1958), il termine poté via via essere applicato a sempre più vaste aree dell'Europa occidentale: anzi, l'etichetta ha spesso preceduto la realtà dei fatti. Come notarono subito alcuni sociologi inglesi, le considerazioni svolte da Galbraith sulla economia e la società statunitensi non potevano affatto essere trasferite all'analisi dell'Inghilterra degli stessi anni: l'«operaio opulento» (affluent worker) di talune inchieste era più uno slogan elettorale del partito conservatore, che non una figura sociale diffusa. Inoltre, la diagnosi di opulenza andava di pari con la rivelazione di altri sintomi di cambiamento sociale, egualmente riscontrati (così pareva) negli Stati Uniti: il tramonto della divisione in classi, e la fine delle ideologie, cioè delle grandi sintesi politiche caratteristiche del mondo di anteguerra. Queste osservazioni erano in realtà largamente mistificatorie. Di fatto, nell'arco di mezzo secolo l'intero Occidente (e alcune aree degli ex Paesi del «socialismo reale») divenne effettivamente società opulenta rispetto al resto del pianeta. Però, l'uso generalizzato del termine, se permette di cogliere una caratteristica di fondo del mondo contemporaneo, fa buon mercato degli squilibri e delle sofferenze che non solo hanno accompagnato la crescita economica dell'Occidente, ma tuttora permangono anche nei Paesi più ricchi. Nella sua genericità, la definizione di «società opulenta» dissimula i dislivelli, spesso enormi, di benessere conseguiti dalle popolazioni dell'Occidente, e il fatto che la diffusione effettiva dei consumi e il miglioramento innegabile delle condizioni di vita sono stati il risultato del sacrificio delle popolazioni e si sono largamente alimentati delle risorse dei Paesi già in partenza più poveri. Con il passare degli anni, e soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta, un inatteso e crescente interesse verso una regolamentazione e una limitazione della spinta globalizzante a livello mondiale – vera molla per la continua apertura del divario tra società opulente e poverissime – è stata avvertita a livello sociale per tradursi, successivamente, in momenti di protesta, come quelli di Seattle (novembre 1999), di Davos (gennaio 2001), di Göteborg (giugno 2001) o di Genova (luglio 2001), e in veri e propri movimenti propositivi.

IL PIANO MARSHALL


Già nel corso dell'ultima guerra gli Stati Uniti avevano avviato una serie di accordi di prestito ai Paesi dell'Europa sotto forma di aiuti per sostenere le consistenti spese di guerra (spese che nell'anno di massimo impegno, il 1943-44, nel Regno Unito erano giunte al 52% del reddito nazionale); questi aiuti erano autorizzati dalla legge Affitti e prestiti.
L'indebitamento dei vari Paesi europei verso gli Stati Uniti proseguì anche dopo la fine del conflitto con l'applicazione del Piano Marshall per gli aiuti all'Europa.
Il piano prendeva il nome dall'allora segretario di Stato americano George Marshall, che lo propose ad Harvard il 5 giugno 1947; entrò in vigore nella seconda metà del 1948, suddiviso in quattro anni, fino al 1952.
Il programma di spesa americano, che è noto anche sotto il nome di Erp (European Recovery Program), rappresentò l'organizzazione sistematica delle varie forme di aiuto statunitense alla ricostruzione dei Paesi europei disposti ad accettare una integrazione nel sistema politico ed economico internazionale con a capo gli Stati Uniti; come condizione per la concessione degli aiuti gli Usa chiesero una stretta cooperazione tra i Paesi europei.
Il piano venne accettato dai Paesi dell'Europa occidentale ed aspramente criticato da quelli dell'Europa dell'Est e dai vari partiti Comunisti europei.
I Paesi beneficiari contrassero con gli Stati Uniti una serie di impegni bilaterali che prevedevano diritti ed obblighi individuali, mentre tra di loro stipularono gli accordi plurilaterali essenziali alla concessione degli aiuti (previsti tanto sotto forma di valuta e di crediti che di materiali e attrezzature).
Per la gestione dell'Erp venne creata una apposita organizzazione, l'Oece (Organization of Economic Cooperation for Europe), mentre per l'erogazione degli aiuti gli Stati Uniti istituirono un proprio organismo, l'Eca (European Cooperation Administration).
Lo scopo ufficialmente dichiarato del piano era quello di fornire un contributo essenziale alla ricostruzione in Europa, aiutandone lo sviluppo e la crescita della produzione e creando alti livelli di occupazione, nel quadro di una stabilità monetaria, finanziaria ed economica internazionale.
Era inoltre evidente il significato anticomunista del piano: infatti la promozione di una rapida ripresa economica in Europa, migliorando le condizioni di vita delle popolazioni, avrebbe tolto ai Partiti comunisti occidentali (soprattutto quello italiano e quello francese particolarmente forti) la possibilità di far leva sul malcontento della popolazione.
Accanto a queste motivazioni più o meno apertamente dichiarate, ve ne furono tuttavia altre, altrettanto concrete, che traevano origine dalla necessità per gli Stati Uniti di stimolare la propria economia. Infatti, negli Usa la capacità di produzione nel corso della guerra era cresciuta in misura considerevolmente superiore al consumo interno e si stava correndo il rischio di una crisi economica se non si fosse riusciti a trovare adeguati mercati di sbocco per i prodotti americani. Il piano Marshall rappresentò così anche l'occasione per riconvertire la produzione statunitense da produzione di guerra a produzione di pace e per trasferire sui mercati europei le eccedenze americane agricole, industriali ed energetiche.
Poiché la maggior parte dei Paesi europei non era in grado di pagare in danaro le necessarie importazioni dagli Stati Uniti, o di compensarle con adeguate esportazioni nazionali verso gli Usa (ove, peraltro, vigeva una ferrea politica protezionistica), il piano Marshall veniva a concedere quei prestiti e quegli aiuti che avrebbero, tra l'altro, permesso all'economia statunitense di prosperare, entrando in una fase tra le più fiorenti della sua storia. Tra il 1948 e il 1952 vennero così indirizzati verso l'Europa aiuti per un totale di 14 miliardi di dollari (di cui 1303 milioni a favore dell'Italia) sotto forma di donazioni nella misura dell'85 per cento e sotto forma di prestiti per il rimanente 15 per cento, al tasso di interesse del 2,5 per cento annuo rimborsabili a lunga scadenza (30-40 anni).
Grazie anche agli aiuti ottenuti a titolo del piano Marshall, già entro cinque anni dalla fine del conflitto i danni materiali della guerra in Europa occidentale si potevano dire completamente riparati tanto per quanto riguarda i trasporti, che per la produzione industriale e quella agricola; anche in campo monetario si manifestava una decisa tendenza alla stabilità, mentre la cooperazione internazionale dava un grande impulso ai rapporti commerciali. Lo stesso problema della disoccupazione, considerato di particolare gravità al momento della stipula degli accordi, trovò una soddisfacente soluzione in tutta l'Europa occidentale grazie allo sviluppo industriale, tanto che in diversi Paesi fu necessario fare ricorso a quote consistenti di immigrati. In Italia circa il 20 per cento degli aiuti americani (255 milioni di dollari) vennero impiegati per l'acquisto di macchinari e attrezzature Usa, soprattutto nei settori dell'industria elettrica (66 milioni di dollari), dell'industria siderurgica (64 milioni di dollari) e di quella meccanica (60 milioni di dollari), col risultato che nel 1952 l'attività produttiva italiana aveva raggiunto un livello superiore del 50 per cento a quello su cui si attestava prima della guerra.
Il rilevante effetto di stimolo all'economia americana conseguente agli aiuti concessi ai Paesi europei si può misurare con un calo della disoccupazione Usa che, tra il 1949 e il 1953, passò dal 5,9 al 2,9 per cento, mentre la produttività crebbe dall'1,9 al 4,3 per cento e il prodotto interno lordo salì dal 2,7 del periodo 1945-49 al 6,1 per cento dei primi tre anni Cinquanta.
Il piano Marshall riuscì pertanto ad offrire all'Europa la possibilità di aumentare la produzione di avviare una consistente fase di crescita dell'economia; nel contempo permise agli Stati Uniti di evitare una temibile crisi utilizzando la domanda dei Paesi europei con valvola di sfogo.
Ai giorni nostri, sulla base dell'esperienza europea del dopoguerra, viene proposta l'applicazione di un analogo piano di aiuti per risolvere la questione debitoria dei Paesi del Terzo mondo. La nuova versione del piano Marshall per i Paesi in via di sviluppo potrebbe mettere a frutto l'enorme domanda potenziale del Terzo mondo con vantaggio tanto per i Paesi sottosviluppati che per quelli avanzati.

IL MIRACOLO TEDESCO


Tra la metà del XIX secolo e i primi decenni del XX la Germania aveva ormai conquistato una posizione economica di grande rilevanza nel quadro europeo e mondiale. I settori da cui traeva maggiore impulso la crescita tedesca erano quello dell'industria pesante e della meccanica di precisione (già a quei tempi particolarmente avanzata). Le due guerre mondiali, però, ebbero l'effetto di mettere in gravi difficoltà per ben due volte l'economia tedesca. Particolarmente gravi furono le conseguenze dell'ultimo conflitto a causa dei bombardamenti a tappeto che avevano colpito le città, le vie di comunicazione, le miniere e le fabbriche. Inoltre le quattro potenze che occupavano la Germania in virtù degli accordi stabiliti alla fine dell'ultimo conflitto mondiale (Usa, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica) stavano procedendo a sistematici smantellamenti degli impianti industriali tedeschi scampati ai bombardamenti e alla esportazione verso i propri territori di macchinari, di scienziati e di tecnici.
Questa politica da parte degli alleati aveva lo scopo di deindustrializzare la Germania e di convertire all'agricoltura la sua economia, al fine di impedire che risorgesse il temuto «pericolo tedesco». La Germania venne così privata, almeno in un primo tempo, di una grande parte delle sue industrie produttrici di macchinari, nonché dell'intero settore della ricerca scientifica e industriale.
Ben presto tuttavia gli alleati si resero conto che solo una Germania occidentale economicamente forte avrebbe potuto rappresentare un ostacolo alla espansione in Europa dell'Unione Sovietica e del comunismo. Pertanto, nell'aprile del 1949 le tre zone occupate da Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti vennero unificate e costituirono la Repubblica Federale Tedesca con capitale Bonn. A questa iniziativa unilaterale dei suoi vecchi alleati, l'Unione Sovietica rispose autorizzando la nascita, nell'ottobre dello stesso anno nei territori da lei occupati, della Repubblica Democratica Tedesca, che rimase sotto la sua sfera di influenza.
Nel 1949 la Germania Federale venne quindi inserita nel programma di aiuti americani per la ricostruzione dei Paesi europei (piano Marshall), ma fino al 1951 continuò a subire lo smantellamento del suo apparato industriale. Nel periodo della occupazione alleata vennero peraltro effettuate scelte che sarebbero state determinanti per lo sviluppo successivo dell'economia tedesca. In materia di politica economica si optò per un sistema di libero mercato (basato sulla iniziativa privata, sulla libera impresa e sull'efficienza competitiva) che avrebbe consentito un più efficace impiego delle risorse. Rilevante tuttavia restò il peso delle imprese di proprietà statale, che venivano però gestite in base a criteri di efficienza (come le imprese private).
Per stabilizzare l'economia fu inoltre necessaria l'adozione, alla metà del 1948, di una riforma monetaria (resa indispensabile anche dalla elevatissima inflazione ereditata dalla guerra) che ancorò il marco al dollaro riuscendo a far sì che, nel tempo, esso diventasse una delle più forti monete del mondo.
In tal modo era completo il quadro delle premesse di quello che viene definito come miracolo economico tedesco; da più parti le cause della rinascita economica della Germania, prostrata alla fine del conflitto, vengono riassunte in una adeguata disponibilità di capitali, di forza-lavoro e di mercati di sbocco.
Per procedere alla ricostruzione delle industrie e delle infrastrutture alla Germania Federale occorrevano consistenti fondi. Gli aiuti ottenuti dagli alleati occidentali fino all'ottobre 1954 ammontavano a 4,4 miliardi di dollari, ma risultarono decisamente inferiori agli impegni che gli alleati imponevano a titolo di costi di occupazione e di riparazioni di guerra. Al di là della entità degli aiuti, tuttavia, il piano Marshall ebbe sull'economia tedesca occidentale l'effetto positivo di fornire valuta straniera per l'acquisto di generi di prima necessità e di materie prime sui mercati internazionali, riavviando le relazioni commerciali con l'estero. In effetti, furono i sacrifici della popolazione, ben decisa a ricostruire il Paese, che permisero di realizzare investimenti che, tra il 1949 e il 1954, furono pari al 25 per cento circa del prodotto nazionale lordo (valori unici in Europa).
In base allo slogan «prima la fabbrica, poi la casa» venne data priorità alla ricostruzione industriale per la quale, nonostante i danneggiamenti e gli smantellamenti, investimenti opportuni e spesso neppure troppo elevati consentirono la rapida ripresa delle operazioni produttive.
Un grave problema che il nuovo Stato dovette affrontare riguardava i 12 milioni di rifugiati provenienti dall'Est. L'inserimento di questa moltitudine avvenne in due tempi: inizialmente i profughi vennero impiegati nella ricostruzione agricola; successivamente gran parte di essi si trasferì nelle città per prendere parte alla ricostruzione industriale. La disponibilità di grandi masse di lavoratori, spesso qualificati, si trasformò così per la Germania da grave problema in importante potenziale per lo sviluppo futuro. Il miracolo economico tedesco attirò anche milioni di lavoratori stranieri (provenienti in prevalenza dall'area mediterranea) che aggiungendosi ai profughi dell'Est, andarono ad accrescere quell'esercito di mano d'opera che, grazie alla politica di contenimento dei salari seguita dai sindacati, tanta parte ebbe nello sviluppo della Germania Federale.
La ripresa dei rapporti commerciali con l'estero fu un elemento ulteriore di crescita. Nei primi anni del dopoguerra vennero avviati traffici con tutte le democrazie liberali, mentre in tempi più recenti sono stati allacciati rapporti commerciali anche con i Paesi dell'Est alla ricerca di nuovi mercati di sbocco.
Pertanto, inizialmente, il Paese trasse vantaggio dalla divisione del suo territorio tra gli alleati: gli fu assegnata una regione tra le più popolose (il che avrebbe assicurato la disponibilità di mano d'opera necessaria all'avvio della ricostruzione), dotata delle terre più fertili, delle zone minerarie più ricche e dei maggiori complessi industriali, sia pure danneggiati dalla guerra. Questi presupposti hanno certamente permesso al Paese di partire col piede giusto. Negli anni seguenti la scelta a favore di un pur limitato intervento statale nell'economia, l'alta qualificazione della forza lavoro (che percepisce elevati salari, fa raramente ricorso allo sciopero e partecipa alla gestione aziendale) svolsero un ruolo importante. Determinante fu anche la rinascita dei grandi gruppi di integrazione verticale, in cui si effettua l'intero ciclo produttivo, dalla materia prima al prodotto finito, senza fare ricorso ad altre imprese (esempio tipico è quello della Krupp, la cui gamma di produzione va dall'acciaio alla più minuta utensileria domestica).
Furono questi gli strumenti che resero possibile in pochi anni lo sviluppo industriale e la crescita economica di un Paese fisicamente e moralmente distrutto, facendolo tornare una potenza industriale tra le maggiori al mondo, caratterizzata da un reddito procapite tra i più elevati, con tassi di sviluppo annui che trovavarono riscontro, prima della riunificazione, solo nel caso del Giappone.
In questo senso la definizione di "miracolo economico tedesco'' trovava piena ragione d'esistere.

LA SOCIETÀ DEI CONSUMI


Prima della Rivoluzione industriale (ma in molti Paesi fino ai primi decenni di questo secolo) i modelli di consumo della popolazione erano improntati ad una grande semplicità: il tenore di vita era talmente basso che si poteva esprimere soltanto una domanda di beni di prima necessità. Il livello dei consumi permetteva unicamente di soddisfare le esigenze primarie dell'alimentazione, mentre il vestiario e l'abitazione spesso si collocavano su un piano secondario.
Con l'avvento della società industriale e con la produzione di massa vengono immessi sul mercato beni in quantità crescenti, i quali sono resi accessibili a strati sempre più ampi della popolazione, sconvolgendo il quadro di riferimento di tradizioni secolari. In questa nuova forma di società viene privilegiata la produzione di beni di consumo rispetto a quella degli strumenti di produzione, in quanto questi ultimi richiedono investimenti iniziali molto consistenti e tempi molto lunghi di produzione e di ritorno del capitale, attraverso la vendita del prodotto (velocità di rotazione del capitale).
Oltre che dalla necessità di minori investimenti iniziali e dalla maggiore velocità di rotazione del capitale, la produzione dei beni di consumo viene facilitata dalla possibilità di mettere in atto, da parte delle imprese produttrici, una azione di persuasione che, attraverso la pubblicità, diffonde modelli di consumo di massa, riuscendo a condizionare le scelte dei consumatori. Puntando su valori effimeri quali il prestigio e il successo e mediante l'impiego dei mezzi di comunicazione, nei Paesi industrializzati si è potuto ottenere un continuo aumento della domanda di beni di consumo volta al soddisfacimento indiscriminato di bisogni non essenziali, spesso a scapito di quelli sociali.
Poiché la gamma dei beni giudicati primari muta a seconda del periodo storico, del grado di sviluppo economico e del contesto sociale in cui si opera (oggi nei Paesi avanzati il frigorifero costituisce, a differenza di quanto accadeva solo alcuni decenni fa, un bene irrinunciabile), come beni di prima necessità non possono più essere considerati solamente quelli che permettono la pura sopravvivenza dell'uomo, bensì tutta la gamma di beni che consente un tenore di vita quanto più possibile vicino a quello medio della popolazione.
Pertanto, al fine di realizzare profitti crescenti, le imprese operano per promuovere bisogni che stimolino la gente all'acquisto di nuovi beni di consumo. Attraverso lo sviluppo tecnologico si rendono superati (obsoleti) molti prodotti e si inducono bisogni sempre nuovi per il cui soddisfacimento i vecchi beni vengono presentati come inadeguati.
Per questo da più parti si sostiene che la ricerca scientifica, piuttosto che contribuire alla soluzione di problemi sociali, si dimostra asservita alla società dei consumi facili per la sua capacità di promuovere lo smercio di nuovi beni, la cui produzione è giustificata unicamente dalla legge del profitto. Si manifestano così fenomeni di distorsione dei consumi a causa dell'attenzione che viene posta sui bisogni individuali, a scapito delle esigenze sociali della collettività.
Un esempio particolarmente significativo riguarda gli anni dello sviluppo economico italiano nel dopoguerra (1951-1963).
Il «miracolo economico» del nostro Paese venne reso possibile dall'espandersi dell'industrializzazione e dalla capacità di esportazione delle imprese produttrici di beni di consumo. Con il progresso economico le occasioni di lavoro nel nostro Paese aumentarono, soprattutto nei settori industriali più dinamici, che producevano per il mercato estero e distribuivano salari più elevati. I maggiori redditi a disposizione dei lavoratori di questi settori indussero un aumento della domanda di beni di consumo più elevato di quanto il reddito per abitante avrebbe consentito. La politica delle imprese volta a condizionare le scelte dei consumatori, unita alla tendenza ad imitare i consumi delle classi dotate di reddito più elevato, fece sì che, in quegli anni, in ogni famiglia italiana comparissero elettrodomestici, automobili, televisori.
La crescita dei consumi privati, tuttavia, non fu accompagnata da uno sviluppo equilibrato dei consumi di carattere collettivo e sociale. Beni assolutamente prioritari quali l'istruzione, le abitazioni, l'assistenza sanitaria, i trasporti pubblici risultarono del tutto insufficienti e inadeguati mentre la dieta della popolazione si manteneva troppo povera. A partire da quegli anni si evidenzia pertanto una distorsione nei consumi degli Italiani, i quali privilegiano la domanda di generi non necessari a scapito di quella di beni essenziali.
Non va poi trascurato il fatto che spesso allo Stato venne demandato l'incarico di provvedere alla creazione delle infrastrutture che richiedevano largo impiego di capitale e che risultavano essenziali alla produzione delle imprese. Esempio tipico fu quello della costruzione a carico dello Stato della rete autostradale, la quale ha indubbiamente favorito lo sviluppo dell'industria automobilistica a scapito di una efficiente diffusione del trasporto ferroviario e del trasporto pubblico in generale.
Il modello di sviluppo applicato in Italia ha pertanto provocato squilibri nella tipologia dei consumi, anche se ha permesso alla popolazione di raggiungere un tenore di vita abbastanza elevato.
Rispetto all'inizio del secolo, la struttura dei consumi è mutata in misura radicale. Tra il 1901 e gli ultimi anni Ottanta, il consumo annuo di carne era passato da 5 a 26 chilogrammi per abitante, mentre i consumi di frutta fresca erano saliti da 26 a 83 chilogrammi, quelli di latte da 34 a 84 e quelli di zucchero da 3 a 29 chilogrammi. Tali incrementi, tuttavia, erano significativi non solo sul piano quantitativo, ma soprattutto su quello qualitativo della dieta degli Italiani. In pratica, rispetto all'inizio del secolo si mangiava - e la tendenza continua tuttora - di più, consumando una gamma molto più vasta e articolata di alimenti. Accanto a quelli tradizionali, inoltre, presero spazio consumi di nuova generazione quali quelli relativi alla cultura, all'informazione, allo sport, al tempo libero, contribuendo ad elevare ulteriormente il tenore di vita del popolo italiano.

L'INDUSTRIALIZZAZIONE DEL MONDO


Un fortunato manuale di storia economica europea dell'età contemporanea porta il titolo di La conquista pacifica, alludendo alla diffusione della civiltà industriale. C'è qualche motivo di paradosso nella definizione: per esempio, lo sviluppo dell'industria è stato spesso connesso, direttamente o indirettamente, a una guerra in corso, oppure alle spese per gli armamenti, cioè per la preparazione di un'altra guerra; inoltre, pacifica l'industrializzazione può essere considerata rispetto alle conquiste brutali del colonialismo, ma indolore certamente non si è rivelata, sia perché l'introduzione delle fabbriche ha significato ovunque sradicamento di popolazioni e assoggettamento di masse di lavoratori a fatiche non più lievi di quelle imposte dalle società agrarie tradizionali, sia perché l'industrializzazione di alcuni poli (Paesi interi o aree all'interno di un Paese) è avvenuta a spese dei Paesi extraeuropei e delle aree non toccate inizialmente dalla Rivoluzione industriale.
La vera e propria industrializzazione del mondo ha avuto luogo dopo il 1945, e per molti versi è tuttora in corso. Intanto, tutti i Paesi di prima industrializzazione, e quelli che avevano creato una base industriale si sono integralmente industrializzati, il che ha comportato la drastica diminuzione della popolazione contadina, la meccanizzazione dell'agricoltura, l'ampliamento del settore dei servizi, alla lunga l'avvento, accanto alle e spesso al posto delle industrie tradizionali, soprattutto quelle pesanti, come la siderurgia e la cantieristica, di nuove attività legate all'elettronica e all'informatica: un processo definito di «seconda industrializzazione», che è in effetti la riconversione di parte dell'apparato industriale dei Paesi di più antica e diffusa industrializzazione. Questa riconversione procede per settori e per isole, per aree geografiche e senza eliminare o sostituire mai del tutto i settori tradizionali, rendendo così sempre più complessa e variegata la fisionomia delle economie avanzate.
Già per la fase della prima industrializzazione gli studiosi hanno individuato l'importanza, Paese per Paese, di fattori sostitutivi del processo di accumulazione caratteristico dei primi Paesi industriali: le differenze nel processo di sviluppo tra «primi arrivati» (first comers) nella famiglia dei Paesi industrializzati e «nuovi venuti» (late joiners), non priva di alcuni vantaggi per i secondi, in grado di partire dal livello tecnologico già raggiunto dai primi, sono state da tempo rilevate. L'industrializzazione del mondo ha significato che produzioni divenute non più economiche (per gli accresciuti costi del lavoro, per la necessità di importare le materie prime) o non più accette alle popolazioni (per gli effetti dannosi sull'ambiente) nei Paesi già industrializzati sono state trasferite in Paesi non ancora industrializzati; dove per gli stessi motivi (soprattutto il basso costo del lavoro) sono state dislocate anche le produzioni di componenti di prodotti avanzati. Le grandi compagnie multinazionali statunitensi, europee e giapponesi hanno pilotato l'espansione industriale, tenendo presenti soprattutto gli interessi dei Paesi d'origine: tanto da suscitare interrogativi sul significato effettivo di un concetto come quello di sovranità nazionale, una volta che l'economia di un Paese venga largamente a dipendere da decisioni prese altrove e non necessariamente in vista degli interessi del Paese in questione. Così, la cantieristica e la siderurgia europee sono state ridimensionate dalla concorrenza giapponese: ma dagli anni Settanta lo stesso Giappone, divenuto a sua volta un perno del mondo più industrializzato, ha sostenuto lo sviluppo di cantieristica, siderurgia e meccanica in altri Paesi dell'Asia orientale: la Corea del Sud e Taiwan, anzitutto, e più recentemente Singapore, Indonesia e Thailandia. Settori come l'industria tessile e calzaturiera di bassa qualità si sono spostati dai centri europei e nordamericani ad alcuni Paesi asiatici (India, Cina, Taiwan); ma anche le componenti di strumenti elettronici come i calcolatori e i computer sono prodotte e spesso assemblate in Estremo oriente o in America latina. D'altra parte, l'industrializzazione si è imposta, a prescindere dalle spinte esterne, a quei Paesi, come la maggior parte dell'America latina, dipendenti sino alla Seconda guerra mondiale dalle esportazioni di prodotti agricoli e materie prime. Così l'Argentina, danneggiata dal crollo dei prezzi della carne, e il Brasile, dipendente dai corsi del caffè, dello zucchero e del cacao, promossero dopo la Seconda guerra mondiale rapide industrializzazioni dall'alto, con il sostegno dei Governi, e con conseguenze sociali sconvolgenti.
Le diverse ondate di industrializzazione, e il modo in cui ogni Paese ne è stato investito, o per impulso interno o per intervento di investimenti esteri, hanno ridisegnato più volte le gerarchie economiche mondiali. Gli Stati Uniti si sono affermati come la principale potenza economica mondiale; ma l'Europa occidentale, in particolare la Germania occidentale, e il Giappone hanno acquisito una supremazia nelle rispettive aree geografiche fra gli anni Sessanta e Settanta. Finita l'epoca della convertibilità del dollaro in oro, gli stessi Usa hanno ingaggiato una sottile lotta per difendere le proprie posizioni corresponsabilizzando i partners nel sostegno del ritmo di crescita dell'economia mondiale. Dai tardi anni Settanta è entrata nell'uso l'espressione di «tre locomotive» per indicare i tre Paesi che dovrebbero trainare il convoglio del mondo industrializzato: Stati Uniti, Giappone, Germania occidentale. Ma all'interno delle diverse aree regionali le posizioni relative dei diversi Paesi sono andate cambiando. In Europa, la Francia ha avuto uno sviluppo lineare e non molto appariscente sino alla fine degli anni Cinquanta, e poi una rapida modernizzazione nei due decenni successivi. La Gran Bretagna ha sofferto più degli altri Paesi dell'invecchiamento del suo apparato industriale, in gran parte smantellato negli anni Ottanta dalle politiche liberistiche dal Governo conservatore. Paesi un tempo relativamente prosperi, come l'Argentina, persero col tempo posizioni, arrivando, all'inizio del nuovo millennio, a momenti di profondissima crisi. La Corea del Sud, un tempo Paese agricolo, ha superato per forza e modernità dell'apparato industriale la Corea del Nord, culla delle prime industrie del Paese.
L'industrializzazione del mondo ha complicato alla lunga le classificazioni geoeconomiche: il Terzo mondo si è disintegrato, comprendendo una pattuglia di Paesi ad industrializzazione accelerata, altri in via di industrializzazione, ed altri ancora relegati al ruolo di produttori di materie prime. Tant'è che si distingue ormai un Quarto mondo, rappresentato dai Paesi più poveri del pianeta. Da questo punto di vista, anche la contrapposizione, in voga a partire dagli anni Settanta, tra il Nord e il Sud del pianeta, semplificazione per indicare Paesi ricchi e Paesi poveri, sembra scarsamente utile, se non come slogan efficace da utilizzare nel dibattito politico. Aree in sviluppo e aree depresse coesistono all'interno di ogni Paese e a maggior ragione all'interno di ogni continente. E tra Paesi ricchi e Paesi poveri esistono complementarità e relazioni di dipendenza sovente complesse.

L'ALTRA FACCIA DELLO SVILUPPO


Il rapporto tra sviluppo economico e sottosviluppo, anzi la correttezza stessa di queste nozioni, sono state oggetto di discussioni accanite. Quella dello sviluppo è stata una vera e propria ideologia, assunta prendendo come riferimento la storia economica dell'Occidente: del resto, il sottotitolo del libro di Walt W. Rostow, Le fasi dello sviluppo economico (1960: Rostow fu tra i consiglieri dei presidenti statunitensi Kennedy e Johnson) era, significativamente, un «manifesto non comunista». Il sottosviluppo di una parte del mondo, è stato osservato, non è avvenuto nonostante lo sviluppo di un'altra parte, ma a causa di questo: sviluppandosi, alcuni Paesi ne hanno sottosviluppato altri. I critici delle teorie dello sviluppo (desarrollistas = «sviluppisti», sono stati denominati i teorici del decollo industriale dell'America latina) a loro volta hanno sottovalutato la possibilità dell'uscita dalle società tradizionali, omologando tendenzialmente il Terzo mondo in un destino di invincibile miseria.
è comunque innegabile che l'inserimento dei Paesi del Terzo mondo in un mercato mondiale dominato dai grandi Paesi industrializzati ha prodotto guasti di vario genere. Le attività economiche locali sono state subordinate per un secolo a quelle dell'Europa: rovinate, come fu il caso dell'attività tessile indiana con l'avvento del dominio britannico, o ridotte alla esportazione di materie prime. Il divario stabilito tra una parte del mondo e un'altra durante la prima Rivoluzione industriale non è stato sostanzialmente mai colmato; se possibile, si è in qualche caso approfondito. I Paesi agricoli e produttori di materie prime hanno conosciuto nel corso del Novecento un miglioramento delle condizioni sanitarie ed alimentari tale da assicurare una sostenuta crescita demografica. Ma non sono cresciute allo stesso modo le opportunità di lavoro. Al contrario, dagli anni Cinquanta-Sessanta le cosiddette «rivoluzioni verdi», cioè la meccanizzazione dell'agricoltura, e l'introduzione dei fertilizzanti chimici su larga scala, hanno radicalmente modificato l'assetto delle campagne di tutto il mondo: mentre però nei Paesi già industrializzati l'esodo dalle campagne ha sostenuto i boom economici di questo dopoguerra, dirigendosi verso le industrie nazionali, nel Terzo mondo lo stesso esodo ha semplicemente disgregato nel giro di una generazione le tradizionali società contadine, e svuotato le campagne per affollare le periferie dei grandi agglomerati urbani, come Città del Messico, Lima, Bombay, Il Cairo, dove la gran parte della popolazione è priva di connotati sociali precisi: non più contadini, non ancora, e forse mai, operai, i milioni di sottoproletari delle metropoli del Terzo mondo alimentano un'enorme economia sommersa, una assai più appariscente economia criminale (in alcune aree dell'America latina e del Sud-Est asiatico massicciamente orientata, dagli anni Settanta, al traffico della droga verso i Paesi ricchi), e flussi migratori verso i Paesi industriali (gli Stati Uniti anzitutto, ma sempre più nettamente anche l'Europa occidentale), per andare a svolgervi i lavori meno qualificati e più pesanti. Nell'insieme, se la «società opulenta» dell'Occidente ha potuto essere incisivamente definita «la società dei due terzi», per intendere che il benessere da essa consentito è un fatto di maggioranza, ma esclude pur sempre una cospicua fetta della popolazione, nei Paesi del Terzo mondo anche più inoltrati verso la crescita industriale (come il Brasile) il rapporto è, nel migliore dei casi, rovesciato: una fetta nettamente minoritaria della popolazione esclude dal benessere la grande maggioranza.
Particolarmente drammatica appare la situazione dei Paesi già più deboli durante il periodo coloniale, come quelli dell'Africa subsahariana. Qui la rovina dell'agricoltura tradizionale è avvenuta anche in assenza di progetti di industrializzazione. E la dipendenza di molti Paesi soprattutto africani (ma anche dell'America latina) dai prestiti del Fondo Monetario Internazionale e delle grandi banche occidentali, soprattutto statunitensi, ha contribuito ad aggravare le loro condizioni, vincolando le politiche economiche alle decisioni delle autorità del Fondo. Il problema del debito del Terzo mondo, che riguarda anche Paesi di nuova industrializzazione, era stato in passato ripetutamente agitato nelle riunioni del movimento dei Paesi «non allineati», dove qualche voce radicale, come quella del cubano Fidel Castro, ne aveva sostenuto la pura e semplice cancellazione.
Con gli anni, e dopo la fine della divisione netta in blocchi, il problema si fece sentire in modo sempre più massiccio, grazie soprattutto alla sensibilità di parte della cosidetta elite intellettuale.
C’era da considerare, comunque, che le situazioni dei Paesi debitori erano però assai diverse tra loro: alcuni si erano indebitati negli anni Sessanta-Settanta per finanziare le infrastrutture necessarie al decollo industriale, mentre altri avevano semplicemente difeso le strutture economiche esistenti, senza rinnovarsi: in America latina, il Brasile rappresentò il primo caso, l'Argentina il secondo.
La tendenza degli esperti e degli agronomi che a partire dagli anni Settanta si interessarono al problema della povertà del Terzo Mondo, era quella di raccomandare l'impiego, ad esempio nei Paesi agricoli africani, di tecniche semplici e realizzabili sul posto, senza l'aiuto di tecnologie costose e necessariamente da importare, e capaci di assorbire manodopera: in sostanza, l'adozione di una via simile a quella teorizzata, e in buona misura praticata, dalla Cina nel primo ventennio di Repubblica popolare. Questo non soltanto perché era considerato l'unico modo di rendere veramente autosufficienti i Paesi destinatari degli aiuti, ma anche perché si trattava dell'unica via per assicurare un passaggio non traumatico dalle società tradizionali ai nuovi modi di vita. Ad ostacolare l'adozione di queste politiche non fu soltanto l'interesse dei Paesi industrializzati, talvolta inesistente, ma anche (se non soprattutto) la volontà dei ceti dominanti locali di rafforzare il proprio potere interno. Le gerarchie economiche ridisegnate negli anni Settanta-Ottanta sembrarono perciò destinate a durare e ad approfondire dislivelli già all'epoca sensibili e tanto finemente analizzati da economisti e sociologi quanto poco efficacemente affrontati sul terreno operativo.
Come abbiamo già detto, durante gli anni Ottanta e Novanta una nuova sensibilità, non politica ma cultural-sociale, si fece strada. Era rappresentata da intellettuali, esponenti del mondo della cultura o dell’intrattenimento che desideravano agire a livello personale per offrire un aiuto concreto (inizialmente di tipo finanziario, quindi sempre più politico) a Paesi e popolazioni in difficoltà. Si assistette allora all’organizzazione di concerti (Live Aid, USA for Africa), di eventi sportivi, di manifestazioni di vario genere; con gli anni le manifestazioni vennero affiancate da vere e proprie azioni di sensibilizzazione (memorabili quelle del cantante britannico Sting nei confronti delle popolazioni dell’Amazzonia o ancora quella dell’irlandese Bono Vox, leader del gruppo musicale U2, per favorire la cancellazione del debito estero dei Paesi indigenti).

SVILUPPO E SOTTOSVILUPPO: NOZIONI IN DISCUSSIONE


La condizione di sottosviluppo è caratterizzata da numerosi elementi di ordine sia economico, sia sociale in senso lato. Tra i primi, quelli fondamentali sono costituiti dalla mancanza di capitali sotto forma di strumenti per la produzione e dalla bassa produttività delle scarse risorse disponibili. In molti casi, la popolazione dedita all'agricoltura è così numerosa, che il suo apporto all'aumento del prodotto agricolo (produttività) è nullo, tanto che trasferendo lavoratori ad altre attività la produzione agricola complessiva non si riduce. In condizioni di sottosviluppo il prodotto per abitante (la ricchezza prodotta in media da una persona) è basso e garantisce solo la sopravvivenza della popolazione, senza che le sue condizioni di vita possano migliorare in modo sostanziale. In presenza anzi di calamità naturali, carestie e guerre l'economia non è neppure in grado di assicurare il mantenimento dell'intera popolazione e possono manifestarsi casi di morti per fame.
Le società tradizionali si caratterizzano anche per una situazione demografica stagnante, come conseguenza di un alto numero di nascite, ma anche di decessi, e per la forza dei gruppi sociali e dei valori culturali che dominano la scena prima dell'affermarsi del capitalismo.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale i Paesi in via di sviluppo si liberano dal giogo del colonialismo, conquistano l'indipendenza politica e si impegnano in vasti progetti di modernizzazione delle loro economie. Il risultato è che, contrariamente alle aspettative di molti, al loro interno prende corpo un processo di sviluppo a ritmi anche elevati e il peso dell'agricoltura si riduce a beneficio dell'industria. Tra il 1950 e il 1975 nei Paesi del Terzo mondo l'espansione della produzione si aggira sul 5 per cento all'anno, raggiungendo valori più che doppi rispetto a quelli registrati dagli attuali Paesi industrializzati nel secolo scorso, quando erano ancora alle prese con i problemi del sottosviluppo. Inoltre, fra il 1960 e il 1981 il prodotto industriale sale dal 26 al 37 per cento della produzione totale dei Paesi in via di sviluppo, mentre la quota dell'agricoltura scende dal 34 al 22 per cento. Anche il prodotto per abitante, l'indicatore sintetico che misura (con molti limiti) il livello di sviluppo, cresce.
Rispetto all'aumento del prodotto pro capite nel periodo 1960-1982, i Paesi del Terzo mondo potevano essere distinti in tre gruppi: a) nel primo gruppo trovavamo 15 Paesi con un tasso di crescita superiore al 3 per cento: Indonesia, Egitto, Thailandia, Nigeria, Repubblica Dominicana, Ecuador, Turchia, Tunisia, Colombia, Siria, Malaysia, Corea del Sud, Brasile, Messico, Jugoslavia; b) nel secondo gruppo erano inseriti 19 Paesi con tassi compresi fra i 3 e l'1 per cento. Etiopia, Mali, Myanmar (Birmania), Malawi, Alto Volta, Ruanda, Tanzania, Guinea, Sri Lanka, Pakistan, Kenya, Bolivia, Filippine, Zimbabwe, Marocco, Camerun, Costa d'Avorio, Guatemala; c) infine nel terzo gruppo erano presenti 15 Paesi con tassi uguali o inferiori all'1 per cento all'anno: Bangladesh, Nepal, Zaire (ora Repubblica democratica del Congo), Uganda, Haiti, Niger, Madagascar, Ghana, Sierra Leone, Sudan, Zambia, El Salvador, Honduras, Perù, Cile.
La situazione ha subito pochi cambiamenti, riconducibili essenzialmente alla variazione politico-territoriale dei vari Stati.
Secondo Sir Arthur Lewis, uno dei padri dell'economia dello sviluppo, il fatto che negli anni Sessanta e Settanta un terzo dei Paesi considerati abbiano registrato tassi di crescita del prodotto pro capite superiori al 3 per cento costituisce un risultato formidabile.
Un successo, tuttavia, che ha comportato costi non trascurabili. L'aumento del reddito è andato soprattutto a vantaggio dei gruppi economici più forti all'interno dei Paesi in via di sviluppo, mentre la gran massa della popolazione ha migliorato solo in misura limitata le proprie condizioni di vita e ha perso spesso le garanzie di cui godeva all'interno delle società tradizionali. L'aumento della popolazione in seguito alla riduzione dei tassi di mortalità, grazie all'estensione a questi Paesi delle cure mediche moderne, contribuisce infatti a mantenere bassi i salari. Sul piano esterno, poi, la partecipazione di questi Paesi alla divisione internazionale del lavoro è subordinata ai bisogni dei Paesi avanzati, e anche l'industrializzazione al loro interno costituisce spesso la conseguenza del decentramento della produzione a livello mondiale attuata dalle imprese multinazionali. Queste ultime, in effetti, sono alla ricerca di manodopera a buon mercato e, soprattutto in quegli anni, investono massicciamente nel Terzo mondo, creando filiali che effettuano fasi del ciclo produttivo che richiedono un forte impiego di forza lavoro.
Nell'ambito di un sistema economico mondiale in via di rapida costituzione, ai Paesi del Terzo mondo viene così riservata una posizione di periferia, rispetto ai Paesi avanzati, centro ed elemento motore del sistema. Pochi Paesi in via di sviluppo raggiungono la fase del decollo, quando gli investimenti sono sufficienti ad innescare un processo di crescita capace di autoalimentarsi (ossia di non interrompersi alla prima difficoltà). Tuttavia, la crescita continua della produzione e del prodotto pro capite forniscono, in quel momento, la speranza che presto o tardi al decollo sarà possibile arrivare.
Questo meccanismo di crescita dipendente si è tuttavia interrotto all'inizio degli anni Ottanta per effetto della crisi del debito, in cui larga parte del Terzo mondo si è trovata immersa.
I forti crediti concessi dalle banche occidentali ai Paesi in via di sviluppo, nei primi anni Ottanta si rivelano in gran parte inesigibili, in quanto i Paesi debitori non sono in grado di produrre la ricchezza necessaria per restituirli e per pagare gli elevati interessi ad essi associati. Ma i Paesi creditori, la Banca mondiale, e il Fondo Monetario Internazionale costringono i Paesi debitori a ridurre importazioni e consumi per far fronte agli impegni. Le conseguenze si fanno ben presto sentire: la crescita dei Paesi più indebitati si arresta e in alcuni casi il prodotto pro capite diminuisce. Per l'insieme dei Paesi del Terzo mondo gli anni Ottanta sono stati un decennio perduto per lo sviluppo mentre per i Paesi più poveri dell'Africa i decenni perduti sono stati due. Si sono salvati soltanto i Paesi in via di sviluppo dell'Asia orientale e meridionale, che hanno richiesto pochi crediti e che hanno attuato una politica di forte espansione delle esportazioni, soprattutto Hong Kong, la Corea del Sud, Taiwan e Singapore. Durante gli anni Novanta la situazione non migliorò: anzi l’insorgere di nuovi, sempre più cruenti conflitti (in Sierra Leone, in Ruanda, in Etiopia, ecc.) determinarono un ulteriore aumento della povertà, cui si accompagnava una costante ricerca di salvezza rappresentata dalla fuga nei Paesi vicini o, in alcuni casi, nei Paesi europei.

I NUOVI RICCHI: SCEICCHI E SAMURAI


La ridefinizione delle gerarchie economiche mondiali ha avuto luogo a partire dai primi anni Settanta sull'onda di più fattori concomitanti. Come risultato l'opinione pubblica ha scoperto, grazie all'informazione, spesso e volentieri deformata, fornita dai mass media, l'esistenza di nuovi centri di potere economico.
Gli anni Settanta hanno visto emergere il peso relativo dei Paesi produttori di petrolio, riuniti in un'associazione denominata Opec, e rappresentati soprattutto all'inizio per lo più da Stati arabi del Medio oriente. Il petrolio, fonte energetica fondamentale nello sviluppo industriale, era stato per tutto il periodo postbellico assai conveniente, anche se l'opinione pubblica dei Paesi industrializzati credeva che i Paesi produttori (che in qualche caso avevano nazionalizzato l'estrazione del greggio: così il Messico negli anni Quaranta e l'Iran negli anni Cinquanta) ne ricavassero cospicue entrate. Nel 1973 i Paesi arabi mediorientali produttori di petrolio attuarono un embargo delle forniture per forzare gli Stati Uniti, e i Paesi occidentali, a esercitare pressioni su Israele, in guerra con l'Egitto. Agendo come «cartello», cioè come associazione, alzarono di comune accordo il prezzo del greggio, quadruplicandolo, da circa tre a circa dodici dollari al barile. La momentanea crisi degli approvvigionamenti e il contraccolpo sulle economie dei Paesi industrializzati, che vedevano alzati bruscamente i costi dell'energia, è stata definita «il primo shock petrolifero» (e nei due anni seguenti ebbe luogo una vera e propria recessione economica nei Paesi industrializzati) o «la prima crisi petrolifera». Ce ne fu infatti una seconda, nel 1978-79, quando, in corrispondenza della crisi politica in Iran, il prezzo del greggio balzò ancora, da circa quindici a trentacinque dollari al barile. Alle crisi petrolifere, combinate con altri fattori, come il ciclo di lotte sociali che si è svolto un po' in tutto il mondo industrializzato fra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, le economie occidentali risposero con drastiche ristrutturazioni e riconversioni. Questi fenomeni sono stati in buona misura appannati agli occhi dell'opinione pubblica dall'enfatizzazione del problema dei prezzi del petrolio, utile tra l'altro a creare dei comodi capri espiatori negli esosi «sceicchi». In realtà, le crisi petrolifere colpirono in misura maggiore le economie più dipendenti dalle importazioni di greggio, come quella giapponese e quelle dell'Europa occidentale, mentre gli Stati Uniti poterono valorizzare i propri ingenti giacimenti.
In secondo luogo, la necessità di contrastare la forza del cartello dell'Opec spinse ad estendere le ricerche di giacimenti per differenziare le aree di approvvigionamento, presto estese a Paesi africani (Angola, Gabon), asiatici (Indonesia) e sudamericani (Ecuador). E si scoprirono presto produttori di petrolio anche alcuni Paesi europei come la Gran Bretagna e la Norvegia. L'aumento della concorrenza, e la necessità dei produttori di tenere alta la produzione per non perdere entrate (accentuata, nel caso di Iran e Iraq, dall'esigenza di finanziare la guerra in corso tra loro, tra il 1980 e il 1988), hanno fatto ribassare nuovamente il prezzo negli anni Ottanta, riportandolo poco sopra i quindici dollari al barile (dopo che era arrivato a punte di quaranta dollari). Durante gli anni Novanta il prezzo continuò a scendere, arrivando più o meno ai livelli di partenza. In ogni caso, nel giro di un quindicennio l'esportazione di greggio ha permesso entrate imponenti (i «petroldollari») a Paesi non industrializzati, spesso dalle strutture sociali arcaiche, modificandone la fisionomia.
Ciò che ha colpito la fantasia dell'opinione pubblica sono state soprattutto le incredibili spese voluttuarie degli «sceicchi» (modo sbrigativo per denominare i sovrani degli Stati della penisola arabica), e il sensibile incremento delle loro fortune private, generalmente investite nei Paesi occidentali. In realtà, le strutture sociali di Paesi a lungo alla retroguardia del mondo arabo sono state rapidamente trasformate, facendo attuare alla popolazione un salto di decenni nel volgere di pochi anni.
La composizione stessa delle popolazioni di alcuni dei Paesi del petrolio è profondamente mutata. Nel Kuwait la maggioranza degli abitanti (priva però del diritto di voto) era straniera (soprattutto sciiti iraniani, prontamente espulsi durante il conflitto Iran-Iraq, Stato, quest’ultimo, appoggiato proprio dal Kuwait), e negli altri Stati della penisola arabica la popolazione si andava via via modificando grazie alla permanenza di consistenti minoranze di lavoratori immigrati non solo dai Paesi arabi, ma anche da Filippine, India e altri Paesi.
I Paesi produttori, però, non rinunciarono a cercare valide alternative alla fondamentale attività petrolifera, vista, soprattutto, la crescente disposizione dei Paesi industrializzati di ricercare in metodi alternativi nuove, possibilmente riproducibili, fonti di energia.
Il problema dell'uso delle entrate petrolifere si è prospettato ovunque esse abbiano rappresentato la più importante voce attiva del bilancio statale. L'Iran dello scià Reza Pahlavi fu avviato ad una industrializzazione accelerata finanziata dall'estrazione del petrolio. Il risultato fu la disgregazione della società tradizionale prima che i programmi di sviluppo, mal diretti e finalizzati agli interessi di una ristretta classe dirigente, potessero migliorare il tenore di vita degli abitanti. Il punto di riferimento del malcontento divenne il clero sciita, che dopo aver diretto la rivoluzione contro lo scià (1979) ha ispirato il nuovo regime. Il caso iraniano, dove l'impatto con l'improvvisa ricchezza dei petroldollari ha avuto esiti rivoluzionari, ha rappresentato uno spauracchio per gli altri Paesi del petrolio. Questi erano preoccupati che una improvvisa alterazione della struttura sociale dei loro Paesi mettesse in pericolo la sopravvivenza dei regimi, ed erano ancorati perciò ad una cauta politica filo-occidentale.
Il petrolio ha beneficiato molti altri Paesi estranei all'area del Golfo persico e della penisola arabica. In Gran Bretagna le entrate petrolifere hanno aiutato la politica del governo conservatore durante gli anni Ottanta. In alcuni Paesi dell'America latina, come il Messico (che era tuttavia tra i grandi produttori sin da prima della Seconda guerra mondiale) e il Venezuela, i petroldollari sono serviti a sostenere costosi programmi di sviluppo: con limitato successo. In realtà, le entrate del petrolio, lungi dal favorire le economie dei Paesi produttori, hanno generalmente contribuito a squilibrarne lo sviluppo: sia perché hanno incoraggiato i Governi a lanciare programmi lasciati a mezzo dal crollo delle entrate, sia perché hanno contribuito a intaccare le economie tradizionali e ad alzare l'inflazione, senza arrecare benefici reali alle popolazioni. Solo dove le entrate petrolifere si sono inserite in un processo di crescita economica più equilibrato i petroldollari hanno rappresentato una occasione per aiutare lo sviluppo. Per i Paesi del Terzo mondo privi di queste fonti di entrata, infine, le conseguenze a lungo termine dell'inflazione degli anni Settanta sono state catastrofiche, perché la loro condizione di dipendenza ne è risultata ulteriormente accentuata.
Il caso di più spettacolare successo economico del dopoguerra (un caso, appunto, del quale solo propagandisticamente viene talvolta proposta la riproducibilità in altri contesti, come quello europeo) è rappresentato dal Giappone. Gli economisti lo vogliono ai primi posti nella graduatoria mondiale dei Paesi più industrializzati e tra quelli creditori. Ed è indubbiamente una potenza industriale non solo in settori tradizionali come la meccanica, ma anche nei settori di avanguardia come l'informatica e in quello di produzione energetica. Grande potenza militare in Asia dalla fine dell'Ottocento sino alla Seconda guerra mondiale, aggressivamente espansionista e imperialista, il Giappone sembrava destinato nel 1945 ad una lunga eclisse. Il Paese fu governato direttamente per qualche anno da un'amministrazione militare statunitense capeggiata dal generale Douglas McArthur; le istituzioni politiche del Paese vennero rimodellate da esperti americani. Posto sotto la tutela militare statunitense il Giappone fu anche privato per espressa disposizione del trattato di pace di un esercito (anche se successivamente fu ricostituita una forza di difesa). La ricostruzione rispettò rigorosamente gli interessi delle grandi concentrazioni industriali (zaibatsu), i cui indirizzi sono rappresentati nella politica nazionale dal partito liberaldemocratico, che nonostante il nome è un partito schiettamente conservatore, al potere fin da prima della guerra, con la breve parentesi postbellica di alcuni Governi di coalizione con i socialisti.
Le ragioni del successo giapponese sono diventate oggetto di studio e retoricamente proposte ad esempio alle economie occidentali. Esse sono in realtà assai meno complicate di quanto non vogliano alcuni osservatori. Si compendiano nella intelligente organizzazione delle aziende, nella grande attitudine innovativa, ma soprattutto nella possibilità (aiutata certo da una cultura autoritario-paternalistica antica e radicata, e opportunamente alimentata dai ceti dirigenti del Paese) di sfruttare per quattro decenni la forza lavoro in misura impensabile nei Paesi industrializzati d'Europa e negli Stati Uniti (grazie ad una legislazione del lavoro favorevole alle imprese) e nel basso livello dei consumi privati. Il successo economico giapponese è stato insomma realizzato dal lavoro dei Giapponesi, e a scapito del loro benessere. Le grandi imprese e lo Stato giapponesi hanno coordinato politiche di investimento in altri Paesi asiatici, dalla Corea, tradizionale area di espansione del Giappone, a Taiwan, successivamente all'Indonesia e alla Thailandia. Negli anni Settanta iniziarono investimenti sia negli Stati Uniti sia in Europa occidentale, mentre trattative furono avviate anche con la Cina.
Alla fine degli anni Ottanta sembrò che per la prima volta il predominio del Partito liberaldemocratico fosse messo in forse dall'avanzata dei socialisti. I risultati elettorali confermarono una ridotta maggioranza conservatrice che però, nel 1993, venne a mancare, dando spazio a una coalizione di sette partiti che dovette, l’anno seguente, lasciare il posto a un’alleanza ibrida formata da forze liberaldemocratiche e socialiste. Le cose non migliorarono e il Giappone dovette far fronte a una grave crisi alla fine degli anni Novanta, che lo fece precipitare dal nono al diciassettesimo posto della classifica mondiale di competitività. Nel 1998 il liberale Keizo Obuchi fu eletto primo ministro, sostituito due anni dopo, per motivi di salute, da Yoshiro Mori. Nel 2001 la carica di primo ministro, parallelamente a quella di presidente del Partito liberaldemocratico, fu affidata a Junichiro Koizumi, cui spettò il compito di risollevare le sorti di un’economia, un tempo trainante, e ora, a causa anche di forti episodi di corruzione, negativamente pregiudicata.

L'ECONOMIA MONDIALE NEGLI ANNI SETTANTA, OTTANTA E NOVANTA


DALLA RICOSTRUZIONE ALLA GLOBALIZZAZIONE


L'economia mondiale del secondo dopoguerra si può distinguere schematicamente in tre grandi fasi. Dalla fine del conflitto fino a tutti gli anni Sessanta si assiste a una continua espansione dell'industria nelle economie capitaliste del mondo occidentale. In questa prima fase il greggio e una vasta gamma di materie prime affluiscono dal Terzo al Primo mondo in cambio di manufatti. Dai Paesi poveri a quelli ricchi s'instaura anche un flusso di manodopera in cerca di lavoro e opportunità di mobilità sociale. Ancora più rapida è l'industrializzazione e la modernizzazione delle economie pianificate del blocco socialista (o Secondo mondo), sostenute dalle grandi risorse naturali dell'URSS e dalle barriere doganali a difesa delle industrie dell'Europa dell'Est.
La seconda fase ha inizio con la crisi petrolifera dei primi anni Settanta. Mentre lo sviluppo continua nelle economie socialiste e si assiste all'ascesa dei Paesi produttori di petrolio (con fiumi di "petroldollari" che dal Medio Oriente e dal Venezuela finiscono nelle banche di Londra, Zurigo e Francoforte), nonché all'industrializzazione di parte del Sud-Est asiatico, l'economia del resto del mondo è prima in ristagno e poi in recessione. La crisi arresta le migrazioni, aumenta la disoccupazione in Occidente e il capitale internazionale affluisce ora più copiosamente verso i Paesi di nuova industrializzazione, dove le imprese multinazionali e gli imprenditori locali cominciano a sfruttare forza lavoro a basso costo e sufficientemente qualificata.
La terza fase, infine, vede nel crollo del blocco sovietico un punto di svolta epocale, che segna la scomparsa di sistemi economici e ideologici tendenzialmente alternativi al libero mercato. Così, dopo il 1989, si aprono all'economia liberista occidentale nuovi e vasti mercati, con la privatizzazione delle imprese statali e la liberalizzazione dei flussi di capitale e degli scambi commerciali, la creazione di nuove aree economiche fortemente integrate (in Europa, nel Nord America, nell'Asia sud-orientale) e la costituzione di potenti strutture di regolazione della liberalizzazione commerciale (WTO, Organizzazione mondiale del commercio di beni, servizi e proprietà intellettuali, nata nel 1994-95). Il sistema capitalistico si allarga a comprendere anche la Cina che, pur mantenendo l'autocrazia del Partito comunista nell'organizzazione socio-politica del Paese, di fatto adotta in questo periodo un modello di sviluppo tale da immettere nel circuito liberista l'area più popolata del pianeta.
Da tempo, del resto, i meccanismi dell'economia non facevano più riferimento solamente a realtà nazionali, ma a un quadro di carattere mondiale, nel quale le economie dei singoli Paesi erano legate da rapporti di interdipendenza e da forme di integrazione. In tale contesto gli Stati nazionali vedevano via via ridursi le proprie prerogative, mentre cresceva il potere decisionale (anche a livello politico) delle grandi imprese multinazionali e dei grandi centri finanziari sopranazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (BM). Gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo si sono caratterizzati da questo punto di vista come un periodo di grandi cambiamenti strutturali nell'economia mondiale che, insieme allo sviluppo accelerato delle moderne tecnologie dell'informazione e dei trasporti, hanno prefigurato l'emergere della cosiddetta "globalizzazione", che avrebbe dominato la scena internazionale del passaggio al nuovo millennio. Globalizzazione (soprattutto ma non solo) economica, che significava in sostanza "convergenza" verso un modello uniforme, a livello tendenzialmente mondiale, di economia di mercato. La nuova "economia mondo", nella quale da allora siamo inseriti, si fondava su un nuovo modo di produrre, caratterizzato da crescenti innovazioni tecnologiche e dall'automazione dei processi produttivi, i quali, a parità di investimenti, permettono di ottenere quantità crescenti di prodotto. E si fondava anche sulla standardizzazione dei consumi (dove Coca-Cola e McDonald's rappresentavano gli esempi più eclatanti della tendenza a creare stili di vita planetari, di matrice USA e veicolati da tecniche di persuasione pubblicitaria che raggiungevano gli angoli più remoti del globo), su meccanismi finanziari sempre più sofisticati e poco trasparenti, sullo smantellamento progressivo del welfare state occidentale e su una nuova divisione internazionale del lavoro, con le economie avanzate orientate ormai verso processi di deindustrializzazione, terziarizzazione e delocalizzazione delle attività produttive in aree del mondo in cui la manodopera costava meno e meno vincolanti erano la legislazione ambientale e quella del lavoro.
E non mancarono, naturalmente, nuove contraddizioni e battute d'arresto. Sopraggiunsero, per esempio, le drammatiche crisi economiche del 1997 e del 1998, con l 'esplosione dei mercati finanziari e la recessione economica delle "tigri asiatiche", seguite dalla crisi della Russia, di alcuni Paesi latinoamericani e dalla stagnazione del Giappone. Nel dicembre 1999 arrivò anche l'inattesa contestazione antiliberista di Seattle, che portava alla sospensione dell'assemblea del WTO e segnalava vistose crepe nel consenso internazionale. Dalla seconda metà del 2000 si arrestava invece l'ascesa delle borse mondiali e crollavano le capitalizzazioni dei titoli tecnologici e di Internet. Il 2000 terminava in USA con la scadenza del mandato Clinton e l'inizio della presidenza repubblicana di George W. Bush che, in nome degli interessi economici e strategici del Paese guida della globalizzazione, affossava il più ambizioso accordo ambientale internazionale, vale a dire la Convenzione di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti, e incrementava notevolmente gli stanziamenti destinati alle spese militari. Così dunque, prima ancora di Bin Laden e dei drammatici eventi dell'11 settembre 2001, il lato oscuro della globalizzazione era già stato in parte illuminato nel corso degli anni Novanta.

L'OCCIDENTE E IL TERZO MONDO


Nell'ultimo dopoguerra l'abbandono delle tensioni tra Paesi permise al nuovo modo di produrre, basato sulla grande industria automatizzata e inizialmente limitato agli Stati Uniti, di fare la sua comparsa, prima, nei Paesi dell'Europa occidentale, in un momento successivo in quelli dell'Europa dell'Est e, ancora più recentemente, in alcuni Paesi del Terzo mondo. La nuova struttura della produzione provocò rilevanti mutamenti all'interno delle varie realtà nazionali; il ruolo stesso dell'uomo rispetto alla macchina mutava e si rendevano necessarie nuove figure professionali (si riduceva progressivamente la necessità di lavoro elementare, mentre aumentava il fabbisogno di lavoratori qualificati). Nell'ambito dei Paesi industrializzati il ruolo trainante di questo processo fu svolto dai tre poli rappresentati da Stati Uniti, Europa e Giappone, che gestivano circa il 60% del commercio mondiale e riuscivano a influenzare (al di là della propria area) anche la maggior parte dei Paesi del resto del mondo; tuttavia i rapporti reciproci tra di essi erano fortemente conflittuali e turbati da frequenti tensioni. Il Giappone si caratterizzava per la grande eccedenza delle esportazioni sulle importazioni, soprattutto verso gli USA (di moltissimi prodotti giapponesi veniva esportata la quasi totalità della produzione). Le eccedenze di moneta estera, che la forte dipendenza dalle esportazioni comportava, venivano impiegate dai giapponesi per contribuire al finanziamento della ricerca mondiale, ma soprattutto di quella americana. Gli investimenti giapponesi negli USA crescevano a ritmi impressionanti; la collocazione geografica, però, rendeva il Paese vulnerabile nei confronti dell'URSS e della Cina, imponendo al tempo stesso la necessità dell'alleanza militare con gli Stati Uniti. Inoltre, l'espansione dell'economia giapponese, unitamente allo sviluppo di numerosi Paesi asiatici compresi nella sua area di influenza, aveva provocato lo spostamento del baricentro dell'economia mondiale dall'Atlantico al Pacifico.
All'interno di quella che era la Comunità Economica Europea (CEE, il secondo grande polo dell'epoca), nonostante la politica comune in materia commerciale, industriale, tecnologica e monetaria, il predominio economico della Germania Federale sugli altri Paesi faceva sì che il secondo polo venisse spesso identificato non con l'Europa comunitaria, bensì con la Germania stessa. Si trattava di un Paese che presentava una situazione analoga a quella giapponese, con elevata capacità commerciale e industriale, eccedenza delle esportazioni e una moneta forte, che intratteneva rapporti privilegiati con l'Europa dell'Est.
Gli USA, pur avendo perduto il predominio indiscusso che li caratterizzava prima dell'ultimo conflitto, conservavano un ruolo essenziale nel quadro internazionale. I maggiori segni di debolezza della loro economia si potevano riassumere nella perdita di competitività, nell'eccesso di importazioni sulle esportazioni, nel risparmio interno insufficiente, nell'indebitamento verso l'estero (erano il maggiore debitore del mondo). Tuttavia non si poteva negare la loro potenza militare, industriale, agricola, scientifica e tecnologica. Particolarmente rilevante era il loro potere in materia finanziaria e monetaria disponendo essi di una valuta, il dollaro, che restava la prima del mondo. I tre poli che dominavano l'economia mondiale erano dunque i maggiori esportatori, possedevano le tre monete principali, nonché le maggiori capacità finanziarie, industriali e tecnologiche del mondo. Restava tuttavia indiscutibile la preminenza statunitense come potenza mondiale.
Nel contesto economico internazionale un particolare ruolo era poi assegnato ai cosiddetti Paesi sottosviluppati: grazie al trasferimento dei nuovi processi produttivi verso un gruppo consistente di Paesi del Sud del pianeta, a partire dagli anni Sessanta si assistette al processo di industrializzazione del Terzo mondo, dove si andava riducendo l'importanza del settore agricolo e si stava rafforzando quella del comparto industriale. Lo sfruttamento della mano d'opera a basso prezzo presente in ampia misura in questi Paesi, fece sì che, nel corso degli anni Sessanta-Settanta, i Paesi industrializzati decentrassero molte produzioni nei Paesi sottosviluppati. In alcuni Paesi (particolarmente dinamici) dell'Est asiatico, poi, la capacità di dotarsi rapidamente delle tecnologie microelettroniche permetteva di esportare non solo prodotti finiti, ma di vendere anche impianti completi a tecnologia avanzata ai Paesi sviluppati.
Questa realtà, tuttavia, non caratterizzava certo la maggior parte dei Paesi del Terzo mondo. In effetti, mentre in Asia i Paesi di nuova industrializzazione registravano tassi di crescita soddisfacenti, nell'Africa subsahariana e in America Latina le condizioni di vita della popolazione peggioravano decisamente, con aumenti delle malattie, del tasso di mortalità infantile e contrazione del tasso di scolarità, mentre si registravano una forte riduzione delle importazioni e un rallentamento del processo di industrializzazione. Un momento particolarmente delicato per questi Paesi fu legato alla crisi debitoria che, a partire dagli anni Ottanta, colpì il Terzo mondo. Nel corso del decennio precedente i Paesi avanzati avevano trasferito somme consistenti verso i Paesi sottosviluppati, alla ricerca di quegli impieghi profittevoli che le conseguenze della crisi petrolifera impedivano di realizzare nel mondo sviluppato (ma le risorse concesse servirono anche per contrastare i movimenti di liberazione nazionale e finanziare, viceversa, regimi corrotti e dittature). Vennero così avviati nel Terzo mondo ambiziosi processi di industrializzazione, utilizzando i prestiti che i Paesi avanzati concedevano in misura rilevante. Tuttavia, alla fine degli anni Settanta gli effetti della crisi mondiale si tradussero, per i Paesi debitori non produttori di petrolio, in aumenti sempre crescenti dei tassi d'interesse e nella contemporanea impossibilità di continuare a esportare verso il mondo sviluppato che, colpito dalla recessione, era incapace di assorbire i loro prodotti e ostacolava le loro esportazioni con tutta una serie di misure protezionistiche. Si avviò così una crisi di portata enorme, resa manifesta per la prima volta nel 1982 con la sospensione del rimborso del debito estero e degli interessi da parte del Messico. Si susseguirono allora numerosi interventi da parte dei Governi dei Paesi creditori, delle banche occidentali e degli organismi finanziari internazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) al fine di evitare il crollo del sistema finanziario internazionale. Le economie dei Paesi debitori vennero messe sotto tutela dal Fondo Monetario per ottenere almeno il pagamento degli interessi, mentre non ripresero, se non in casi sporadici, le concessioni di nuovi prestiti necessari a proseguire i processi industriali già avviati e a produrre le risorse necessarie ai rimborsi. Nonostante alcune riduzioni del debito a carattere eccezionale, la situazione permase grave e lungi dall'essere risolta.
Inoltre, sempre nel corso degli anni Ottanta e Novanta, si registrò un forte aumento delle disuguaglianze di reddito tra la fascia più ricca e la fascia più povera della popolazione mondiale, collocate rispettivamente (da un punto di vista macro-economico) nel Nord e nel Sud del pianeta: negli anni Settanta, infatti, il rapporto tra il reddito del 20% più ricco e quello del quinto più povero dell'umanità era di 30 a uno, alla fine degli anni Novanta esso era diventato di 60 a uno. All'aumento della disuguaglianza nel mondo non furono certo estranei i processi di internazionalizzazione della produzione e degli scambi. Questo perché la globalizzazione, che facilitava gli scambi internazionali di ogni tipo (di beni-merce, finanziario, monetario) e aveva potenzialità enormi, in quanto avrebbe potuto permettere una più equilibrata distribuzione delle risorse disponibili, di fatto svolgeva un'azione positiva solo nei confronti di alcuni Paesi un tempo sottosviluppati e ora in fase di rapida crescita (Cina, India, Brasile, Sud Africa), ma non nei confronti di molti altri Paesi che continuavano a essere drammaticamente arretrati (come tutta l'Africa subsahariana, ad esempio).

L'INTEGRAZIONE DEI MERCATI


Il fenomeno della "globalizzazione" è un processo di integrazione internazionale delle attività economiche e produttive (flussi di merci, servizi, finanza, forza lavoro), associato a una integrazione mondiale dell'informazione e delle conoscenze (telecomunicazioni, reti informatiche, know-how tecnologico), degli scambi personali (migrazioni, mercato del lavoro, turismo) e di diverse istituzioni e livelli di governo (per esempio l'Unione Europea, accordi di libero scambio come il NAFTA o l'ASEAN, convenzioni e strutture internazionali come il WTO). L 'interazione tra questi processi e soggetti, accelerata dalla dissoluzione delle alternative ideologiche e politico-economiche al capitalismo, ha determinato a partire dagli anni Ottanta del XX secolo una nuova configurazione dell'economia e della politica mondiali. Mercati e imprese, in primo luogo le imprese transnazionali, sono stati i protagonisti di questa nuova fase, con il supporto di politiche neoliberiste che hanno determinato (in maniera più o meno estesa nei vari Stati, ma con un segno omogeneo su scala mondiale, derivato dal modello statunitense) il progressivo ritiro dell'intervento pubblico dalle attività economiche strutturali (liberalizzazione e privatizzazione dei mercati energetici, delle telecomunicazioni, dei trasporti) e dalle funzioni sociali (sanità, previdenza, educazione).
Il segno principale dell'economia globale è stato l'accelerazione, senza precedenti per la sua dimensione quantitativa, del commercio mondiale: per quanto il tasso di crescita fosse elevato anche nel periodo precedente (grosso modo doppio rispetto alla crescita del prodotto interno lordo delle Nazioni), è negli anni Novanta che la progressione del commercio mondiale si differenzia nettamente dalla crescita della produzione e del reddito. Infatti, tra il 1990 e il 2000, mentre la produzione e il reddito mondiali sono cresciuti rispettivamente del 27% e del 25%, il volume delle esportazioni era pressoché raddoppiato (+ 96%), e in valore monetario era cresciuto dell' 80%. Lo sviluppo del commercio ha interessato i prodotti agricoli, minerari, industriali e i servizi, ma non allo stesso modo. La crescita si è concentrata, in particolare, sui beni industriali e sui servizi (in primo luogo trasporti globali, turismo, servizi finanziari), che all'inizio del XXI secolo rappresentavano circa il 20% del commercio mondiale. Così, a fronte di una crescita del 22% della produzione agricola, vi è stata una crescita del 54% del volume delle esportazioni agricole, mentre per i prodotti industriali a fronte di una crescita del 30% del volume della produzione, il commercio è aumentato del 210% in volume e del 94% in valore.
Per effetto della internazionalizzazione della produzione e della globalizzazione dei mercati, soprattutto nelle aree ricche del pianeta, è mutata radicalmente anche la qualità del commercio mondiale. Il commercio internazionale è diventato sempre meno lo scambio tra prodotti diversi (materie prime contro prodotti industriali finiti) e sempre più uno scambio tra analoghe tipologie di merci e all'interno dello stesso sistema di imprese, con il conseguente corollario di una concorrenza sempre più agguerrita. Come e più che nella produzione, nel commercio internazionale sono emersi anche nuovi attori geopolitici. La triade USA, Europa e Giappone, ha continuato a dominare gli scambi, ma nel corso degli anni Novanta hanno assunto un peso crescente nell'economia mondiale anche altri Paesi asiatici, in primo luogo la Cina, Taiwan e la Corea (la cui quota totale sull'export mondiale è passata dal 2,8% del 1980 al 5,8% del 1990, al 9% del 2000). Sul complesso del commercio mondiale, si è invece ridotta la quota dei Paesi dell'Unione Europea - al cui interno sono però fortemente aumentati gli scambi - e, tra questi, anche dell'Italia. Infine, alle soglie del XXI secolo grandi aree del mondo restavano ancora ai margini della globalizzazione: con la caduta dei prezzi del petrolio del 1998 si dimezzava, per esempio, il peso degli Stati arabi, mentre, per motivi diversi, si contraeva anche il ruolo economico dell'ex Europa dell'Est e l'Africa riduceva drasticamente il valore reale delle sue esportazioni.

LA GRANDE CRISI FINANZIARIA DEL 2008


Nell'autunno del 2008 una crisi economica e finanziaria partita dagli Stati Uniti d'America coinvolse in breve tempo la gran parte dei Paesi industrializzati innescando una recessione di portata mondiale che non aveva avuto eguali per dimensioni e diffusione prima di allora. Definita la peggior crisi economica dopo quella del 1929, la crisi del 2008 proveniva dal centro del sistema, cioè da Wall Street, e mise in ginocchio l'intero segmento; la sua entità fu quindi più ampia e investì il cuore della globalizzazione, che trovava nella finanza l'elemento chiave. La crisi ebbe inizio nell'agosto 2007, in seguito alla politica del credito facile e più precisamente per il crack dei cosiddetti mutui subprime (cioé i prestiti associati a garanzie basse o nulle dei debitori e si parla di mutuo subprime per indicare che si tratta di un mutuo effettivamente a rischio). Una seconda causa va ricercata negli strumenti della finanza derivata utilizzati per rendere possibili le suddette transazioni. In misura massiccia debiti come i singoli mutui immobiliari vennero raggruppati e cartolarizzati, trasformati cioè in titoli, collocati poi sul mercato. L'onda lunga della crisi innescata dall'implosione dei mutui immobiliari americani, crisi mai digerita dal sistema economico statunitense, irruppe nell'autunno 2008 con una successione di eventi allarmante: i mercati azionari internazionali vennero letteralmente messi sotto pressione e il sistema finanziario globale venne scosso dagli effetti che le insolvenze sul mercato dei mutui statunitensi ad alto rischio catapultarono sulle borse di tutto il mondo. L'ondata di vendite che investì le borse portò gli indici a subire una drastica riduzione del loro valore. La crisi generò una pluralità di dissesti bancari. La lista delle vittime sembrava crescere di settimana in settimana, cambiando il volto di Wall Street e dando alle autorità ruoli nuovi. Dopo un difficile iter parlamentare preceduto da una fitta serie di consultazioni e da appelli al senso di responsabilità comune, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti approvò in via definitiva il pacchetto di misure di emergenza volto ad arginare la crisi finanziaria. Il maxi piano di salvataggio Usa ammontava a 850 miliardi di dollari: ai 700 miliardi per soccorrere il sistema finanziario infatti se ne aggiunsero altri 150 per un pacchetto decennale di sgravi e deduzioni fiscali per cittadini in difficoltà con i mutui. L'obiettivo fu senz'altro quello di tentare di stabilizzare i mercati finanziari, dai quali poi dipendeva la sorte di tutti gli altri settori economici. Gli effetti, come sempre, partendo dagli Usa arrivarono anche in Europa, dove molte banche avevano acquistato e rivenduto ad altri gruppi bancari e assicurativi le obbligazioni strutturate sui mutui subprime. Di fronte a questa drammatica situazione divenne indispensabile l'intervento delle banche centrali, che già in stato di massima allerta, iniettarono liquidità supplementari per garantire il funzionamento dei sistemi interbancari. La discesa delle quotazioni aumentava infatti il rischio di scalate ostili che avrebbero potuto favorire una speculazione selvaggia, forte del difficile momento vissuto in questa fase dal mercato. In tutta Europa i crescenti timori di una recessione spinsero i capi di Stato e di governo a lanciare un piano di azione comune che desse una risposta coordinata alla crisi di credibilità e di liquidità dei mercati finanziari europei. Il presidente di turno dell'Unione europea, il francese Nicolas Sarkozy, raccogliendo un sostanziale consenso sulla necessità di risposte comuni, il 12 ottobre convocò un vertice straordinario dell'Eurogruppo per dare un inquadramento coordinato alle iniziative nazionali sulla crisi. L'accordo raggiunto dai quindici Paesi dell'Eurozona prevedeva garanzie sui prestiti interbancari e garanzie pubbliche in caso di eventuali ricapitalizzazioni delle banche in difficoltà. L'accordo era flessibile, nel senso che ogni Paese avrebbe deciso in concreto come porre in atto queste garanzie. Sarkozy espresse inoltre l'auspicio che misure analoghe fossero adottate da tutti i Paesi dell'Unione europea. Anche perché, come sottolineato dal commissario Ue agli Affari economici Joaquin Almunia, non vi era dubbio che le turbolenze sui mercati stessero già colpendo duramente famiglie e imprese. Infatti, nonostante l'attivismo dei governi e delle Banche centrali, i listini delle borse europee e mondiali continuavano a crollare ovunque. La recessione globale colpì anche l'Asia, dove persino la Cina, che aveva spinto molto sull'acceleratore prima delle Olimpiadi, ora era in fase di rallentamento. Il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, in linea con la Commissione Ue, prevedeva per il nostro Paese un'ulteriore perdita di competitività e il proseguimento della stagnazione in atto almeno fino a metà del 2009. Per rispondere in modo sistemico alla crisi finanziaria mondiale venne raggiunto un accordo tra il presidente americano uscente George W. Bush, il presidente di turno Ue Sarkozy e il presidente della Commissione europea Manuel Barroso sull'organizzazione di un vertice internazionale che si sarebbe tenuto il 15 novembre 2008 a Washington. Al centro del vertice G20, a cui avrebbero partecipato i 19 Paesi più industrializzati del mondo più l'Unione Europea, l'analisi di una risposta alla crisi globale, ma anche un ripensamento dell'architettura finanziaria mondiale e l'elaborazione di strategie per la protezione del libero mercato: per questo, insieme ai leader mondiali, sarebbero stati presenti al tavolo anche le maggiori istituzioni sovranazionali, come Onu, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale.

GLI EFFETTI AMBIENTALI DELL'INDUSTRIALIZZAZIONE


L'industrializzazione è stata considerata un fenomeno intrinsecamente positivo sia dai sostenitori dello sviluppo capitalistico, sia da quelli dell'economia socialista. Liberale o marxista, la cultura occidentale è da un secolo, e in modo assolutamente maggioritario, industrialista; l'anti-industrialismo è stato, sino agli anni Sessanta, una componente delle ideologie reazionarie. Le prime clamorose incrinature all'ottimismo industrialista vennero nel 1972 da un osservatorio inaspettato: il Club di Roma, un centro di studi economici legato a influenti ambienti industriali e finanziari, pubblicò con grande risonanza un libro bianco sui Limiti dello sviluppo. Nel libro si sosteneva che le risorse naturali del pianeta terra sono limitate, e che dato il livello di consumi dei Paesi avanzati, l'accesso di sempre nuovi Paesi alla industrializzazione e la forte crescita demografica della popolazione del pianeta nel dopoguerra, non era possibile considerare illimitata la crescita economica e bisognava tener conto delle conseguenze disastrose dell'industria sull'ambiente naturale; si sosteneva quindi la necessità di correggere il modello di sviluppo e di incoraggiare politiche demografiche nel Terzo mondo (dove i tassi di crescita della popolazione sono più alti) per contenere i fenomeni segnalati.
Le tesi del libro furono vivacemente contestate: il rapporto fu considerato espressione dell'interesse dei Paesi ricchi e un invito a mantenere quelli poveri nella loro condizione. Il paradosso del rapporto stava nel fatto che la limitazione degli sprechi caratteristici della società dei consumi era da sempre un argomento dei critici del sistema capitalista, che sorprendeva vedere auspicata da apologeti di quello stesso sistema. I fenomeni additati all'attenzione erano però reali, e ad essi si era andata aggiungendo dagli anni Settanta la preoccupata attenzione di molti studiosi per le conseguenze ambientali a lungo termine dell'industrializzazione generalizzata e incontrollata del mondo. Questa preoccupazione aveva animato le organizzazioni ecologiste, note genericamente col nome di «verdi», di diversissima origine e tendenza, sorte in Europa occidentale dagli anni Settanta e affermatesi soprattutto nella Germania occidentale.
Sul punto della questione demografica sin dagli anni Sessanta gli scienziati occidentali e statunitensi, favorevoli a diffondere il controllo delle nascite nel Terzo mondo, avevano incontrato la convergente opposizione di alcuni teorici del terzomondismo, e in particolare dei leader cinesi, e della Chiesa cattolica, che sul principio del controllo delle nascite ha sempre manifestato una ferma opposizione. Di fatto, la Cina avviò più tardi una rigida politica di controllo demografico; e le indicazioni della Chiesa furono tranquillamente disattese da moltissimi cattolici. Inoltre, le politiche di controllo pianificate dai Governi risultano generalmente inefficaci, quando non producono conseguenze aberranti. In India il Governo di Indira Gandhi ricorse in qualche caso alla sterilizzazione forzata; in Cina le famiglie contadine, incoraggiate a limitare il numero dei figli, fecero largo ricorso all'infanticidio delle femmine. Inoltre, molti osservatori preoccupati del boom demografico del Terzo mondo, furono nel contempo allarmati dal forte calo delle nascite nei Paesi europei, e spesso ostili anche alle conseguenti immigrazioni dal Terzo mondo in Europa. Per ammissione generale, il vero modo di rallentare la crescita demografica consisteva nell'innalzare il livello di benessere delle popolazioni. è migliorando le condizioni del Terzo mondo, si diceva, che se ne limita l'esplosione. D'altra parte, lo sforzo dei Paesi del Terzo mondo per industrializzarsi fu a sua volta generatore di danni: il Brasile rivendicava il diritto di sfruttare come credeva il bacino amazzonico; ma la distruzione delle sue foreste produceva alterazioni al clima del pianeta, dunque possibili danni a carattere mondiale (anche se, va aggiunto, la sorte degli alberi forse preoccupò i mass media occidentali più di quella degli indigeni sterminati dall'avanzata dei coloni). Più in generale, il complesso degli scarichi industriali di tutto il mondo sembrò cooperare allo stesso risultato, detto con formula efficace «effetto serra»: sull'argomento non c'era tuttavia unanimità neppure tra gli scienziati, incerti nel valutare le conseguenze di un innalzamento della temperatura del pianeta, e scettici qualche volta sull'importanza stessa del fenomeno. La desertificazione dei suoli era reale: vi collaboravano le costruzioni di strade, aree urbane, edifici, in un processo di cementificazione continuo; ma nella maggior parte del globo la desertificazione era in realtà frutto dell'abbandono delle colture prodotto dalla mancanza di interventi adeguati o dall'intervento di fattori di danno, come i disboscamenti, la mancata canalizzazione delle acque, ecc.
Altre conseguenze nocive per l'ambiente, ma per estensione per l'uomo, derivavano dall'uso dell'energia nucleare, sia per scopi militari (esperimenti in tempo di pace per realizzare ordigni più potenti), sia per scopi civili. Sugli effetti degli esperimenti nucleari era stato sempre mantenuto dai Governi uno stretto riserbo; quanto all'uso civile dell'energia nucleare, l'incidente alla centrale di Cernobyl, in Unione Sovietica, nel 1986, fu solo il caso più noto e tragico; fughe radioattive si sono probabilmente verificate in altre centrali dell'Urss e degli Stati Uniti. Inoltre, le stesse industrie tradizionali, a cominciare dalla siderurgia e dalla chimica, erano in grado di danneggiare indirettamente la salute delle popolazioni, come segnalava la correlazione riscontrata tra tumori e inquinamento. Senza dire degli incidenti, che potevano assumere proporzioni catastrofiche, come la nube tossica prodotta a Bophal, in India, dalla fuoriuscita di gas, l’isocianato di metile, da uno stabilimento della Union Carbide, un'industria chimica statunitense, provocando migliaia di morti (1984), o il caso di Seveso, in Italia.
A partire dagli anni Ottanta, insomma, l'attitudine nei confronti dell'industrialismo mutò sensibilmente, almeno nei Paesi da tempo industrializzati. L'argomento sollevò polemiche combattute a colpi di statistiche, non sempre affidabili, e di previsioni, non sempre ragionevoli. Ottimisti e catastrofisti dissentirono su quasi tutto, comprese le evidenze. Non è di consolazione il constatare che sia l'industrialismo capitalista, sia quello collettivista hanno prodotto guasti ambientali e inquinamento. In ogni caso, l’atteggiamento di tutela e di difesa dell’ambiente si fece sempre più forte e incisivo, divenendo basilare e imprescindibile per ogni decisione di tipo politico-economico.

SEVESO


Il 10 luglio 1976 da una fabbrica vicino a Milano, l'Icmesa di Seveso, si sprigionò una nube che, trasportata dal vento, si depositò sui terreni circostanti e naturalmente sulle abitazioni. Non era la prima volta che dalle fabbriche delle zone si alzavano nuvole di fumo e di gas. Anche la puzza lì era di casa, anche l'irritazione agli occhi e alla gola.
Solo dopo 10 giorni cominciò a trapelare la verità. La nube uscita dalla Icmesa conteneva una delle più pericolose sostanze tossiche che si conoscano: la diossina, un composto del cloro.
Non erano note con esattezza gli effetti che questa sostanza poteva produrre: nel giro di qualche giorno tuttavia gli alberi della zona colpita dalla nube persero le foglie, la vegetazione avvizzì, gli animali da cortile cominciarono a morire. E le persone? Per settimane i responsabili (i dirigenti della fabbrica, gli amministratori comunali, quelli della regione) tacquero o diedero versioni confuse e contraddittorie. Cercavano di minimizzare, di nascondere il gravissimo pericolo che incombeva sulla gente.
Gli effetti della diossina erano stati tristemente rilevati durante la guerra del Vietnam quando gli Americani avevano riversato sulle campagne vietnamite tonnellate di diserbanti (dove c'era anche la diossina) per distruggere l'agricoltura. Le conseguenze di questo avvelenamento furono gravissime; le persone accusavano arrossamenti della pelle, comparsa di eczemi anche a distanza di mesi e di anni, la progressiva necrosi del fegato e infine la morte. è stata notata anche la comparsa di tumori. La diossina ha inoltre la capacità di mutare il patrimonio genetico con il rischio quindi di far nascere bambini deformi.
A Seveso e nelle cittadine intorno solo a poco a poco si venne a conoscenza di questi rischi. Ma non furono prese decisioni immediate e la diossina ebbe il tempo di penetrare in profondità nel terreno in seguito alle piogge. Nell'agosto la gente fu fatta sgomberare dalla zona più direttamente colpita dalla nube: si trattava di lasciare il lavoro, le abitazioni, le scuole, ecc. Intanto molti avevano già avvertito i sintomi dell'avvelenamento. Poi cominciò l'opera di bonifica.
Tutto questo è potuto accadere perché fabbriche, anche quelle piccolissime, sorgevano vicino ai centri abitati, soprattutto non esisteva alcun controllo sulla nocività degli insediamenti industriali. Solo nel 2002 la Cassazione sentenziò la risarcibilità per danni morali degli abitanti di Seveso (e della zona) che erano stati colpiti dalla nube tossica.

DROGA


Laudano, oppio, assenzio: questi i nomi delle droghe che erano di moda nel secolo scorso, quando i dandy inglesi o i poeti maledetti francesi frequentavano i caffè autorizzati di Parigi o le fumerie di Londra.
Morfina, cocaina: ecco le droghe divenute celebri nei primi decenni del ventesimo secolo, quando ad usarle erano le grandi spie, le celebri attrici del cinema muto o gli scienziati come Sigmund Freud.
Marijuana, hascisc, Lsd, le droghe della contestazione degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, gli «spinelli» o i «trip» dei grandi concerti rock dove migliaia di giovani «fumavano» per sentirsi liberi dai condizionamenti e rompere con le convenzioni.
Eroina: la droga degli ultimi anni, la droga dei giovani morti di overdose, dei ragazzi che scippano vecchiette per procurarsi i soldi necessari per comprarsi la «dose» giornaliera, dei giovani in fila in farmacia per chiedere una siringa, emaciati volti di esseri umani in crisi di astinenza o ammalati di Aids.
E, di più recente acquisizione, il crack, l'ecstasy, l'ice, le droghe sintetiche, facili da procurare e altrettanto facilmente deleterie.
Ma ancora la cocaina, lo stupefacente di “lusso’’.
Messa così, parlare di droga sembra facile. Tutti, almeno a grandi linee, sostengono di sapere cos'è la droga, anche se a molti non viene più in mente il pepe o la cannella venduti dal droghiere, e sono pochi coloro che si chiedono, quando si parla di droga, se sia più corretto parlarne al singolare o al plurale.
Cos'è, innanzitutto, la droga? Per il vocabolario è «una sostanza secca usata per dare un gusto gradevole alle vivande» oppure «una sostanza naturale o composto chimico con spiccata azione stupefacente» (questo quanto specificato nel Dizionario Garzanti della lingua italiana). Quest'ultima definizione potrebbe andare bene per alcune droghe, per esempio l'eroina, ma non per l'Lsd o la marijuana che difficilmente possono dare risultati «stupefacenti». L'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha dovuto rivedere più volte le definizioni relative al termine droga fino a quella del 1980 in cui si definisce droga «ogni sostanza capace di determinare uno stato di dipendenza o psichica o fisica o ambedue in seguito alla sua somministrazione periodica o continuativa». Una definizione del genere resta comunque insoddisfacente. Alcune droghe, così come vengono comunemente intese, non rientrerebbero nella definizione dell'Oms, mentre, rientrerebbero a pieno titolo molti medicamenti o additivi alimentari o veleni che normalmente vengono chiamati farmaci, anziché droghe.
Per uscire da tutto questo pasticcio forse è meglio far riferimento all'Onu che nel 1967 intendeva per droga qualsiasi sostanza che ha un'azione farmacologica psicoattiva, che provoca, cioè, alterazioni dell'umore e dell'attività mentale. In tale senso sono sostanze psicoattive non solo le droghe illegali come l'eroina o la cocaina ma anche quelle, se così possiamo chiamarle, legali come le bevande alcoliche, il caffè, il tè, il tabacco. A questo punto dovrebbe risultare abbastanza chiara la confusione che è sempre stata fatta attorno al concetto di droga. Confusione che non si presenta, invece, quando a rispondere, anziché un esperto, è il primo passante che incontriamo per strada: costui non avrà dubbi, è droga, anche se con effetti diversificati, l'eroina, la cocaina, la marijuana, ovvero tutte quelle sostanze psicoattive che la legge italiana del 1990 proibisce di consumare.
La storia insegna che molte sostanze psicoattive sono state diffuse, accettate ed usate o come gratificazione psicologica (alcool, caffè, tè...) o per svolgere certi riti magico-religiosi (foglie di coca, funghi allucinogeni) o come medicinali (oppiacei). Sempre, però, l'uso di queste sostanze è stato controllato da chi, via via a seconda delle culture esaminate, veniva considerato esperto della materia: stregone, sacerdote o medico. Costoro avevano anche la possibilità di proibire, al di fuori di certe particolari situazioni, l'uso delle sostanze psicoattive. In alcuni casi storici, vennero rese illegali sostanze che al giorno d'oggi nessuno si sognerebbe di considerare droghe: nel XVII secolo era proibito l'uso e il traffico di tabacco nell'Impero ottomano, nell'Impero persiano, e in alcuni Stati tedeschi come la Sassonia e la Baviera. Alla Mecca e al Cairo era proibito, se non per uso strettamente medico, anche il caffè.
Ma la proibizione più clamorosa è comunque quella legata al consumo dell'alcool che il Corano vieta in tutto l'Islam e che il governo degli Stati Uniti dichiarò illegale con la legge Volstead del 1920. Furono gli anni del proibizionismo che fino al 1933 videro le carceri americane riempirsi di decine di migliaia di persone che infrangevano la legge. Quando si parla di droga, dunque, si parla anche di divieto, e quando si parla di qualcosa di proibito ecco che subito qualcuno infrange la legge.
Il fatto è che è difficile per chiunque ammettere che chi cerca e consuma sostanze psicoattive lo fa per la semplice ragione di «star meglio». Così risponde chi consuma caffè, tabacco, alcool o eroina. Le conseguenze, a volte, sono tremende, ma chi si sofferma a considerarle fa, in genere, dei distinguo: per esempio si ritiene, nella maggioranza dei casi, che un forte fumatore di tabacco corra rischi gravissimi per la propria salute ma che in fondo quelli sono fatti suoi; un forte consumatore di alcool viene moralmente riprovato più di un consumatore di tabacco perché l'alcool provoca dipendenza fisica e una sindrome di astinenza che conduce, a volte, al delirium tremens. Ma più che scuotere la testa in segno di disapprovazione non si fa. Diverso il discorso per l'eroina o la cocaina il cui consumo è punito dalla legge e che pertanto, automaticamente, costituiscono il simbolo del male.
E male la droga ne fa davvero, non solo per la sua assunzione ma per l'inevitabile corollario dovuto al suo prosperare in un mondo di frontiera, quello dell'illiceità. Intanto i tossicodipendenti sono moltissimi, e il loro numero è in costante aumento grazie anche alla diversificazione delle sostanze stupefacenti e alla loro più o meno facile reperibilità. Inoltre sempre alto è il rapporto tra coloro che fanno uso di stupefacenti e Aids.
Secondo il professor Aiuti, esperto della lotta contro l'Aids, metà dei tossicodipendenti che fanno uso di eroina è sieropositiva con punte del 70 per cento nei grandi centri urbani.
Tutto questo avviene perché droga vuol dire soldi. E i soldi vogliono dire criminalità: nonostante il sequestro di grossi quantitativi di eroina e di cocaina, il consumo e lo spaccio di queste sostanze non sono rallentati. Il giro d'affari fa gola a troppe persone. Come nell'America degli anni Venti, quando il proibizionismo faceva prosperare i gangster che distillavano e distribuivano clandestinamente l'alcool, così il giro della droga è controllato dalla grande criminalità organizzata che si serve di decine di migliaia di spacciatori, anche minorenni, per vendere la merce che viene comprata a prezzi incredibilmente alti dai tossicodipendenti, a loro volta spinti alla microcriminalità (scippi, furti, aggressioni) per ottenere il denaro necessario all'acquisto della loro dose giornaliera. Nonostante gli sforzi delle strutture preposte al recupero dei tossicodipendenti, sempre alto rimane il numero annuo dei decessi in Italia (se nel 1987 erano 543, 6 dei quali stranieri, nel 1996 si arrivò a 1.566, di cui 46 stranieri, scendendo, nel 2000, a 863, di cui 31 stranieri: in tutti i casi la stragrande maggioranza era rappresentata da maschi).